Gli emiri, con posizioni di vertice. Ma anche i boia dai lunghi coltelli insanguinati che hanno infiammato le piazze delle città finite sotto gli artigli del Califfato. Passando dai semplici combattenti e poi più giù, fino a chi ha supportato e lavorato per lo Stato islamico. Si troveranno tutti davanti alla sbarra, tra un mese o poco più. L’annuncio è stato dato dal co-rappresentante per gli Affari esteri dell’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est, Abdulkarim Omar. I foreign fighter che da tutto il mondo si sono riversati in Siria per unirsi all’Isis finiranno a processo.

Nelle carceri controllate dalle Sdf (le Forze democratiche siriane, guidate dai curdi delle Ypg) alloggiano circa mille miliziani stranieri che facevano capo all’ex califfo Abu Bakr al-Baghdadi. Nei campi di detenzione riservati ai familiari, invece, ci sono più di 4mila donne, parte delle quali ritenute responsabili di crimini, e circa 9.500 bambini, figli di combattenti. La maggior parte dei parenti è ancora trattenuta nel gigantesco centro di al-Hol, a est di al-Hasaka, che ospita oltre 60mila persone e dove, nel solo 2019, a perdere la vita a causa della malnutrizione e delle cattive condizioni igienico-sanitarie sono stati in più di 500.
In totale, dunque, quasi 15mila persone detenute provenienti da 54 Paesi diversi (Germania, Francia, Olanda e Svezia quelli maggiormente rappresentati). I vertici del Rojava hanno chiesto per lungo tempo che ciascuno Stato si facesse carico dei propri concittadini, ma la quasi totalità dei governi non ha risposto all’appello. Così, a distanza di quattro mesi dall’invasione turca a est dell’Eufrate nei territori controllati dall’amministrazione curda, i prigionieri affronteranno il giudizio di un tribunale. Destino, questo, a cui sono già andati incontro circa 6mila combattenti locali.

“Nessun Paese ha accettato di rimpatriare i propri foreign fighter – è la ricostruzione fatta da Abdulkarim Omar, dove in Finlandia ha incontrato l’omologo Pekka Haavisto – così abbiamo proposto di istituire un tribunale internazionale, ma anche questa idea non ha avuto seguito. Ora è arrivato il momento, per i combattenti stranieri, di affrontare un processo. Partiremo all’inizio di marzo“. Una prima richiesta di assistenza è stata avanzata, ufficialmente, all’esecutivo scandinavo (a cui dovrebbero seguirne altre dirette ad altri Paesi) che si è dimostrato disponibile a fornire aiuto all’amministrazione del Rojava. Ma il Kurdistan siriano, fanno sapere fonti locali, accetterà “qualsiasi partecipazione formale o informale da parte dei governi”. Compresi, ovviamente, osservatori e avvocati. “L’obiettivo è che questi processi siano il più trasparenti ed equi possibili”, sono le parole Fener al-Kait, capo del dipartimento per gli Affari esteri. Per questo, tra le altre necessità, ci sarebbe anche quella di fornire rappresentanza legale agli imputati.

Nel 2014 l’Amministrazione autonoma della Siria del Nord-Est ha introdotto una serie di leggi proprio in materia di terrorismo, aggiornando l’impianto siriano esistente. Per esempio, è stata cancellata la pena di morte. Per i reati più lievi la pena va da uno a cinque anni di carcere, con lavori forzati. Per i combattenti e per chi ha coperto incarichi di primo piano si arriva a vent’anni. Infine, per i crimini più efferati, compreso l’omicidio, c’è l’ergastolo. Le norme che compongono il codice penale, tuttavia, sarebbero ancora in fase di aggiornamento e di ulteriore definizione. “Lo scopo è quello di avvicinarle il più possibile a standard che rispettino i diritti umani e i sistemi giuridici occidentali – ragiona Thomas McClure del Rojava Information Centre – il sistema di giustizia, in ogni caso, è già il più equilibrato della regione se paragonato con quello iracheno, turco o siriano”. Da marzo, dunque, si apriranno i processi. E l’impressione è che a partire saranno quelli nei confronti degli imputati di Paesi con cui la cooperazione è più stretta. In testa il Kosovo, che ha già rimpatriato 110 concittadini, la Russia (53) e l’Uzbekistan (148).

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