I pm Prestipino e Colaiocco auditi: "La professoressa Maha Abdel Rahman che non ha mai collaborato con le indagini e non ha più risposto dopo il primo contatto formale C'è stata di certo una premeditazione nel sequestro e la morte è stata volontariamente inflitta e non conseguenza delle torture". Il presidente dell'organo parlamentare Palazzotto: "Questo non è un semplice caso giudiziario ma anche politico e diplomatico"
Tra i tanti misteri rimasti insoluti sulla morte di Giulio Regeni, uno in particolare non riescono a spiegarsi i magistrati della procura di Roma: il silenzio della professoressa di Cambridge che seguiva il giovane italiano nella sua ricerca. “Rimane per noi un mistero l’atteggiamento della tutor di Giulio a Cambridge, la professoressa Maha Abdel Rahman che non ha mai collaborato con le indagini e non ha più risposto dopo il primo contatto formale“, hanno detto i pm Michele Prestipino e Sergio Colaiocco, auditi dalla commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Regeni. “D’altra parte dobbiamo ribadire la riuscita collaborazione con le autorità del Cambridgeshire e con quelle inglesi nel loro complesso”, hanno aggiunto i due magistrati, auditi per la seconda volta in due mesi dall’organo parlamentare, presieduto da Erasmo Palazzotto.
“Questo non è un semplice caso giudiziario ma anche politico e diplomatico. Ed è un caso che riguarda la cultura e la civiltà nostro Paese”, ha detto il deputato eletto da Liberi e Uguali, alla fine dell’audizione dei pm della procura di Roma. “Utilizzeremo tutti gli strumenti di questa commissione per raggiungere la verità e ci auguriamo che l’attività di questa commissione possa essere utile anche alla procura alla quale assicuriamo tutto il nostro sostegno”, ha aggiunto Palazzotto. I misteri del caso Regeni, infatti, sono legati soprattutto alla mancata collaborazione dell’Egitto alle indagini della procura capitolina. “Per noi il punto centrale è quello della rogatoria con tre richieste e siamo ancora in attesa di risposta”, ha spiegato Prestipino, che da sei mesi è il procuratore facente funzioni della Capitale. Il riferimento è alla rogatoria che chiede conferme alle autorità egiziane in merito alla presenza a Nairobi, nell’agosto del 2017, di uno dei cinque indagati, il maggiore Sharif, che secondo un testimone avrebbe raccontato delle “modalità del sequestro di Giulio” nel corso di un pranzo. I pm hanno inoltre sollecitato agli omologhi egiziani l’elezione di domicilio degli indagati (tutti appartenenti agli apparati di sicurezza) e infine dati sui tabulati telefonici, ma non hanno mai ricevuto alcuna risposta. “Nessuna risposta anche sulla rogatoria inviata in Kenya“, ha detto Colaiocco, spiegando che “con Kenya e Egitto non esistono convenzioni giudiziarie”.
“Rispetto alla scorsa audizione la novità è l’incontro avvenuto in Egitto tra il team investigativo italiano, con Sco e Ros, e quello egiziano del 14 e 15 gennaio scorso. Nel corso di questo incontro c’è stato uno scambio di informazioni ed è stato fatto il punto della situazione. C’è stata da parte loro la richiesta di documentazione che noi abbiamo già inviato. Questo scambio di documenti è funzionale a un futuro incontro tra magistrati”, ha spiegato Prestipino. I due magistrati hanno poi fornito alla commissione alcune elementi emersi dalle indagini. A cominciare dal rapimento di Regeni. “C’è stata di certo una premeditazione nel sequestro di Giulio Regeni”, che è stato oggetto per due mesi di un’attenzione da parte dei servizi egiziani “né casuale né occasionale. Ma non abbiamo certezza del perché i fatti finora accertati siano andati in quel modo”, ha spiegato il pm Colaiocco. Il giovane di Fiumicello non è morto per caso in seguito alle botte ricevute dai suoi rapitori. “La morte di Giulio – ha detto il pm – è stata volontariamente inflitta e non conseguenza delle torture”.
Gli investigatori hanno raccontato come non sia affatto “certo che volessero fare ritrovare corpo di Giulio. La strada dove è stato trovato è costeggiata da muraglioni alti 3 metri, per chilometri. Solo il fatto che un camioncino ha forato in quel tratto di strada ha reso possibile individuare il corpo, è stato un fatto fortuito. Se si volesse fare ritrovare o meno il corpo è un fatto non chiaro”. L’indagine della Procura di Roma ha cercato di ricostruire il più possibile le attività di Regeni in Italia e all’estero. “La vita di Giulio al Cairo era riservata, sobria e dedita solo all’attività di ricerca che sperava di concludere al più presto tanto che aveva già comprato il biglietto di rientro in Italia con partenza il 23 marzo. La sera si vedeva con gli amici con cui faceva ricerca”, ha aggiunto il pm.
Giulio Regeni venne rapito la sera del 25 gennaio 2016: il suo corpo martoriato fu trovato nove giorni dopo, lungo la strada che collega Alessandria a Il Cairo. Nelle prime settimane dopo il ritrovamento del corpo, tante false piste si susseguirono e, a distanza di quattro anni dall’omicidio, chi indaga in Italia è convinto che il giovane sia stato torturato e ucciso dopo esser stato segnalato come spia alla National Security, i servizi segreti egiziani, dal sindacalista degli ambulanti, Mohammed Abdallah, con il quale era entrato in contatto per i suoi studi. Abdallah chiedeva a Giulio di poter usare a fini personali, in modo illegale, una borsa di studio che il giovane, grazie a una fondazione britannica, voleva far arrivare al sindacato. La richiesta di Abdallah e la risposta di Giulio vennero immortalate in un video, girato dal sindacalista nel dicembre del 2015 con una telecamera nascosta, probabilmente su richiesta della polizia. Secondo chi indaga, potrebbe esser stato proprio il rifiuto di dare illegalmente quei soldi a segnare il destino di Giulio: l’ipotesi è che quando Abdallah capì che non avrebbe ricevuto per sé almeno una parte delle diecimila sterline in ballo, decise di denunciarlo per accreditarsi con la National security come un informatore adeguato, e segnò la tragica fine del ragazzo. Nel dicembre del 2018, cinque agenti egiziani sono stati iscritti, a Roma, nel registro degli indagati: si tratta di ufficiali appartenenti al dipartimento di Sicurezza nazionale (servizi segreti civili) e all’Ufficio di investigazione giudiziaria del Cairo (polizia investigativa) che rispondono di sequestro di persona in concorso. L’Egitto, però, non ha mai collaborato alle indagini. Anzi in almeno quattro casi ha cercato di depistarle.