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Trump fa filotto. E il voto di impeachment diventa un boomerang per i democratici

Game over. L’impeachment è sfumato, ammesso che sia mai stato qualcosa più di un pio desiderio democratico: il voto del Senato di ieri sera è una pietra tombale. E il boomerang, che come molti avevamo visto partire, è arrivato abbattendo i democratici già tramortiti dai caucuses nello Iowa, dove 72 ore dopo si stanno ancora contando i voti – una partenza delle primarie disastrosa, come immagine per il partito e come risultati per l’establishment del partito.

Assolto: per il Senato degli Stati Uniti, Donald Trump non ha abusato del proprio potere quando bloccò aiuti militari all’Ucraina per 391 milioni di dollari, pretendendo che prima Kiev aprisse un’inchiesta contro suoi rivali politici, e non ha ostacolato la giustizia, quando impedì a testi chiave di presentarsi a testimoniare nell’inchiesta contro di lui.

Nel giro di tre giorni, il magnate e showman inanella un filotto di successi presidenziali: lo Iowa, che doveva essere uno spot dei democratici e che diventa invece pubblicità per loro negativa; poi il discorso sullo stato dell’Unione, un comizio elettorale auto-incensatorio a reti tv unificate; infine il no del Senato all’impeachment, cioè alla sua rimozione.

Un doppio voto ha ieri chiuso un processo durato meno di tre settimane: dalla prima accusa, Trump è stato assolto con 52 voti a favore e 48 contrari – il senatore repubblicano Mitt Romney è stato l’unico a rompere la disciplina di partito, giudicando il presidente colpevole; dalla seconda accusa, Trump è stato assolto con 53 voti a favore e 47 contrari – Romney, su questo punto, ha ritenuto che i democratici non avevano esperito tutti i mezzi a loro disposizione per ottenere le testimonianze considerate necessarie.

Adesso è facile dire che la mozione di censura, una sorta di piano B mai scattato, aveva senso come piano A, perché una maggioranza di senatori disposti a dire che Trump nel Kievgate s’è comportato male, senza pretendere d’arrivare alla rimozione, si poteva trovare. Ma ormai è tardi: cosa fatta capo ha.

L’assoluzione era scontata: perché Trump fosse considerato colpevole e rimosso ci volevano 67 voti, i due terzi dei cento senatori. Erano circolate ipotesi su senatori moderati dei due campi che avrebbero potuto sottrarsi alla disciplina di partito, ma a parte Romney nessuno l’ha fatto.

Prima del voto Romney, un mormone dello Utah candidato alla presidenza nel 2012, ha spiegato con un discorso intriso di forte emozione di ritenere che l’abuso di potere fosse provato: “Trump è colpevole di un lampante abuso della fiducia pubblica” e il suo comportamento nel Kievgate costituisce “un fragrante attacco ai nostri diritti elettorali, alla nostra sicurezza nazionale e ai nostri valori fondamentali”.

Il voto di ieri chiude la procedura d’impeachment, avviatasi in autunno con l’apertura dell’inchiesta da parte della Camera, che prima di Natale aveva poi votato, sempre divisa lungo linee partitiche – alla Camera, i democratici sono maggioranza – il rinvio a giudizio del presidente con due capi d’accusa. L’assoluzione libera il presidente di un timore seppur remoto, visti i rapporti di forza in Senato, e gli consente di lanciarsi senza remore nella campagna elettorale per la sua rielezione il 3 novembre, l’Election Day. La vicenda dell’impeachment è stata un boomerang perché Trump ne esce vincente e rafforzato e vede aumentate le sue chance di conferma, mentre i democratici ne escono scorati, nervosi, divisi.

La tensione fra i democratici è forte, come indica il gesto della speaker della Camera Nancy Pelosi, l’artefice della procedura di impeachment, di stracciare il discorso del presidente martedì sera, dopo l’intervento sullo stato dell’Unione fatto davanti al Congresso riunito in sessione plenaria: gesto plateale e stizzito, ammissione d’impotenza e di rabbia.

I repubblicani nell’aula applaudivano quasi ogni frase del magnate presidente e scandivano “Altri quattro anni”. Deluso chi s’aspettava da Trump un programma articolato (ma chi se l’aspettava?, lui è sempre apodittico e lapidario). Dell’ultimo discorso sullo stato dell’Unione del (primo?) mandato del magnate e showman restano impressi la celebrazione del Great American Comeback, la visione del “meglio che deve ancora venire” e un impegno: “Sarà nostra la prima bandiera su Marte”.