E se in mezzo al traffico mettesse la freccia Quentin Tarantino? Sogno proibitissimo. Un Oscar alla regia di quelli da cinefili puri. Osiamo pure: C’era una volta a… Hollywood, straordinariamente già in dvd, e da Natale 2019, è il miglior film di Quentin. Quello più conciliante tra la propria esaltazione formale libertaria e la storia condivisa di un luogo (Hollywood), di una cultura, di un sogno infranto che Tarantino con il suo finale barbaramente conciliante riunisce pezzo per pezzo.
Insomma l’Oscar 2020 per la miglior regia dovrebbe finalmente arrivare per l’autore di Pulp Fiction. Solo due gli Oscar in carriera, ma solo come sceneggiatura originale: Pulp Fiction (1994) e Django (2012). Tre le nomination alla regia: Pulp Fiction, Bastardi senza gloria e appunto C’era una volta ad Hollywood, ma clamorosamente una sola al miglior film, sempre quello con DiCaprio e Pitt che in tutto di nomination quest’anno ne mette insieme nove. Insomma, potrebbe, dovrebbe, essere l’anno di Tarantino.
Anche se, ovviamente, che il Todd Phillips di Joker rimanga fuori dai giochi a noi piange il cuore. Perché se riuscissimo ad andare oltre l’immensa prestazione di Phoenix, questo film così inatteso, così anarcoide, così ribelle, è una meteora centrifuga rispetto ad una melassa di contenuti dicotomica di bianco contro nero, di buoni contro cattivi che sembra imperare nell’evo contemporaneo. Phillips ha confezionato Joker con una maestria rara di questi tempi, elevando la rabbia a dimensione del racconto senza giudicare o redarguire, senza sentenziare o sghignazzare. Il rispetto che lo sguardo di Phillips ha per il suo Joker dovrebbe da solo valere questo premio giusto e calibrato, guadagnato rischiando una u-turn nella propria carriera di commediante davvero coraggiosa.
Quotato altissimo, come del resto l’intero film (cinque nomination), è quel Bong Joon Ho che ha pennellato nei minimi dettagli di set, punto macchina, ritmo e recitazione, un delirante capolavoro anticlassista come Parasite. Bong, come del resto lo sono in pieno Tarantino, Phillips e gli altri contendenti all’Oscar 2020 (Scorsese e Mendes), è uno di quei registi dalla magniloquenza autoriale che incastrano pezzo per pezzo minuziosamente fino a giungere ad un’opera finita che non deve avere nemmeno un filo d’erba fuori posto.
Guardando Parasite si nota questo calcolo infinitesimale rispetto anche solo a quel mezzo centimetro in più o in meno oltre il quale il quadro non deve sbilanciarsi, oltre il quale l’inquadratura può assumere il significato contrario di ciò che si era prefissato. Quasi maniacale la messa in scena di Parasite, da lezione di architettura e dislocazione/esplorazione degli spazi (l’Oscar per il miglior production design non gli sfuggirà di certo). Con una piccola riserva in merito ad una freddezza programmatica che comunque si fonde con la voluta distanza tenuta rispetto alle pedine umane continuamente in movimento nella scala socio-economica dentro al metaforico appartamento upper class.
Il buon vecchio zio Marty è alla sua nona nomination da regista (un solo Oscar vinto con The Aviator nel 2005), ma mai la grazia dell’Oscar per il miglior film. Insomma, il delitto perfetto per un genio come Scorsese è già stato compiuto da tempo. Assegnargli un altro Oscar alla regia non sfigurerebbe nemmeno se battesse Tarantino, Phillips, Mendes e Bong tutti insieme.
Solo che l’operazione The Irishman, targata tra l’altro Netflix, con al centro il ringiovanimento in digitale degli attori anziani (De Niro, Pesci, Pacino) per farli figurare dai 30 agli 80 anni, non è proprio il massimo dell’inventiva per un regista che aveva fatto dei formalismi sovraccarichi di dinamicità e pura messa in scena una sorta di marchio di fabbrica.
Alla fine della lista troviamo poi Sam Mendes sul quale ci siamo pronunciati in altra occasione e sul quale non vorremo tornare pena l’ennesimo incubo ad occhi aperti di 1917, videogame sparatutto senz’anima e cuore da adolescente fuori tempo massimo. A noi Mendes pare un regista farlocco fin dai primi tentativi di epater les bourgeois liberal con American Beauty. Un’opera che ricordiamo spesso per un’iconica locandina con Mena Suvari nuda coperta di petali di rosa nei punti giusti e l’inquadratura di un sacchettino di plastica svolazzante buono giusto per una reprimenda di Greta Thunberg. Insomma, premiateli tutti questi registi ma Mendes proprio no.