Il Cantico dei Cantici portato in scena da Roberto Benigni al Festival di Sanremo 2020 è uno dei libri della Bibbia ebraica e cristiana risalente probabilmente a non prima del IV secolo a.C. Diviso in otto scene/capitoli, parte breve, inattesa, sorprendente dell’Antico Testamento perché parla soltanto di amore, con paragoni e metafore poetiche di amplessi e desideri, tra due protagonisti chiamati lo Sposo e la Sposa. Un botta e risposta continuo che prima è soliloquio di lei, poi apprezzamenti di lui, e ancora la Sposa che cerca, desidera, brama lo Sposo, e infine l’ottavo capitolo con “i fratelli avversi” di lei che si preoccupano del suo avvenire e la Sposa di nuovo a dialogare con lo Sposo ad anelare la fuga.
Benigni l’ha definita la “canzone più bella nella storia nell’umanità” e ne ha spiegato il valore per circa 26 minuti di monologo accennando al fatto che le interpretazioni del Cantico dei Cantici che si sono susseguite nel tempo sono molteplici (allegorica, naturalistica, tipica), come tutti i testi antichi che non hanno un documento originario alla base conservatosi integro come fonte primaria. L’artista toscano ha infatti citato la collaborazione con diversi autori che hanno affrontato il libro in esame – tra questi Guido Ceronetti, Andrea Ponso, Cesare Angelini e anche il cardinale Ravasi – per ottenere poi la sua versione finale, che ha descritto in modo affabulatorio come “testo primitivo, versione anteriore a tutte”.
Infine, appunto, è arrivata la declamazione dei versi, di pochi minuti (circa otto) dove il comico toscano ha trasformato il linguaggio aulico alla base in un’attualizzazione più semplificata con un lessico asettico (tra gli altri termini come “testicoli”, “stendardo”, “viscere”) o interi periodi come “il suo sesso dentro di me”, “l’odore del tuo sesso” che, confrontati con la versione di Cesare Angelini edita da Einaudi figurano come una radicale riscrittura.