Il dibattito ipocondriaco sul coronavirus “made in China” imperversa anche in Italia, innescando polemiche mediatiche, contraccolpi economici e ripercussioni politiche. Tutto si chiedono come evitare che si espanda nelle nostre città. In questo fiorire di opinioni più o meno allarmistiche manca una domanda: chi pensa all’Africa? Sono 3.000 i progetti finanziati dai cinesi nel continente, da Nord a Sud, e sono almeno 200mila (secondo alcune valutazioni, 2 milioni) i lavoratori provenienti dalla Cina all’opera da quelle parti, soprattutto in Algeria, Angola, Nigeria, Repubblica del Congo, Repubblica democratica del Congo ed Etiopia. Qualcuno si sta preoccupando in modo serio del via-vai, tuttora in corso, tra Cina e Africa e di eventuali forme di prevenzione? Vai a saperlo… Di certo, gli africani non hanno né i mezzi né il cosiddetto “potere contrattuale” per poter pretendere qualcosa dal governo cinese.
Qualche notizia però emerge. Il 7 febbraio – nel silenzio generale – si è appreso il parere di padre Filippo Ivardi, comboniano, direttore del mensile Nigrizia. All’agenzia Dire ha spiegato, a proposito dell’epidemia di coronavirus: “L’Africa è abituata a lottare e resistere, anche se spesso in Italia e in Europa questo non si racconta o si racconta troppo poco”. Sembra, si legge, che intanto i controlli siano stati rafforzati in molte capitali subsahariane. Nel 2003, al tempo della Sars, un’altra epidemia nata in Cina, l’Africa ne era uscita quasi indenne. Secondo padre Ivardi, la “narrazione di un’Africa debole e impreparata” risulta dunque fuorviante, però “i legami con la Cina si sono fatti sempre più stretti e sospensioni di voli e riduzione di scambi sono destinati a generare ripercussioni”.
Il 3 febbraio si poteva leggere qualcosa anche tra le notizie diffuse dall’agenzia di stampa Ansa: “Nessun caso di infezione da coronavirus 2019-nCoV è stato finora confermato in Africa, ma… sta aumentando l’esigenza dei controlli dai numerosi voli in arrivo dalla Cina, conseguenza della fittissima rete di relazioni commerciali, e contemporaneamente c’è una grande necessità dei kit per la diagnosi. È quanto emerge dalle dichiarazioni dei Centri africani per il controllo delle malattie (Africa Cdc) e dalle notizie riportate dalla rete della Società internazionale per le malattie infettive”. Secondo il direttore dei Cdc, John Nkengasong, “l’Africa è ad alto rischio per la diffusione del coronavirus”, perché “i contatti con la Cina sono aumentati del 600% negli ultimi dieci anni”. L’Ansa precisa che la mancanza dei kit per la diagnosi è un problema comune a molti altri Paesi africani (è il caso di aggiungere che, se i kit ci fossero, sarebbe comunque problematico raggiungere tutte le persone da esaminare).
Sul tema è uscito pure un breve articolo online della Bbc, sempre del 7 febbraio. “La nostra più grande preoccupazione è il potenziale per il virus di diffondersi in Paesi con sistemi sanitari più deboli”, ha detto il direttore generale dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), Tedros Adhanom Ghebreyesus, dall’Etiopia. Michael Yao, capo delle operazioni di emergenza dell’Oms in Africa, ha precisato: “Sappiamo quanto sia fragile il sistema sanitario nel continente africano e questi sistemi sono già sopraffatti da molti focolai di malattie in corso, quindi per noi è fondamentale rilevare in anticipo in modo da poter prevenire la diffusione”. Quindi ha aggiunto di essere preoccupato per “la scarsa capacità di trattare i casi critici”: “Stiamo avvisando i Paesi perché almeno individuino i casi in anticipo, per evitare all’interno della comunità africana la diffusione del virus, che sarebbe difficile da gestire”.
Diciamo che ci sono abbastanza elementi per preoccuparsi di quello che succede in Africa, dove – in parole povere – la possibilità di fare prevenzione seria è un miraggio. Tuttavia sui principali media italiani, e non solo, questo aspetto è ignorato, almeno per ora, oppure ridotto a vaghi accenni. Una volta nelle strade della contestazione sessantottina si gridava lo slogan “La Cina è vicina”. Oggi è vicina anche all’Africa, persino sul fronte del nuovo virus. Di certo, è vicinissima agli africani in vari campi, sebbene ciò sia sottovalutato (o taciuto) dalle nostre parti. Perché il governo di Pechino è il nuovo colonizzatore del continente (già defraudato abbondantemente dal vecchio e nuovo colonialismo occidentale), con investimenti per 143 miliardi di dollari (dato del 2019) e l’obiettivo di mettere sempre più le mani su importanti risorse energetiche e minerarie. Già oggi molti Paesi africani sono super-indebitati con la Cina: in sostanza, sono suoi “ostaggi”, oltre che, ormai in misura minore, nostri. Però questa è un’altra storia. O forse è un aspetto della stessa storia, di cui l’opinione pubblica è pressoché inconsapevole.