C’è da scommettere che l’americano medio della provincia profonda non sappia neppure trovare Seul sul mappamondo. E questo nonostante la guerra che fu. Dunque, forse, c’era proprio da scommettere su quest’edizione totalmente sovversiva degli Oscar, in cui l’Academy ha dimostrato di saper guardare oltre, così lontano da perdere i propri riferimenti linguistici e culturali: il simbolo di questo era la presenza dell’interprete a veicolare alla platea hollywoodiana le emozioni dell’inatteso vincitore.
La sorpresa della quadruplice vittoria di statuette “pesanti” di Parasite, che indica il trionfo del semi-outsider Bong Joon Ho, ha il sapore buono dello spiazzamento dei soliti pronostici e di una minima ripresa della coscienza “di sinistra” degli USA sotto la governance di Trump. Vero è che Hollywood si è sempre schierata contro l’attuale presidenza, ma il gesto forte, quello che doveva incidere, non era ancora arrivato, perché non bastavano le favole sulla tolleranza del diverso, l’inclusione dei Blacks o dei vicini messicani, per siglare un punto a capo. E, a proposito dei Mexican ultimamente trionfatori al Dolby Theater, gli ultimi premiati erano opere “praticamente” a stelle e strisce (The Revenant, The Shape of Water…) o quando totalmente latini (Roma) non c’era stata la forza e la determinazione di consegnargli l’Oscar più pesante, quello di miglior film. Dunque quanto non è riuscito a fare Alfonso Cuaron l’ha compiuto il 50enne da Taegu (una città sudcoreana che sfidiamo chiunque a rintracciare!) con un film che – in fondo – rispecchia quello del collega di Città del Messico nell’assunzione del punto di vista degli ultimi, nel loro riscatto, nella vigorosa enunciazione di una società costruita sulle separazioni.
Una prima volta per l’Asia, peraltro, in un momento in cui ogni volto dagli occhi a mandorla sembra richiamare la fobia da Coronavirus, che forse fa dimenticare la mancanza di African-americans dal podio delle varie categorie, già annunciato nella carenza di nomination. Mentre sul fronte LGBT e diritti delle donne i messaggi forti sono arrivati a destinazione anche senza essere urlati. Negli Oscar della svolta “sconfinante” – che si spera non sia solo una parentesi episodica – c’è stato, si è già scritto, un cambiamento di segno nello sguardo, da liberista a quasi marxista, dove è doverosa l’inclusione del miglior documentario assegnato all’assai lefty American Factory: l’auspicio è che quanto è accaduto ieri notte accenda un lumicino nelle coscienze dei cittadini statunitensi che saranno al voto fra una manciata di mesi.
Che Parasite illumini un monito e una speranza to do the right thing, a fare la cosa giusta.