Circa la metà delle 2880 tonnellate spedite nel Paese sarebbe finita in impianti privi delle necessarie autorizzazioni: ricavi milionari e danni all'ambiente. L'associazione è riuscita a filmare i siti di stoccaggio illegali e prodotto un dossier che ha consegnato alle autorità
Più di 1.300 tonnellate di rifiuti in plastica spedite illegalmente dall’Italia ad aziende malesi. E questo solo nei primi nove mesi del 2019 quando, su un totale di 65 spedizioni dirette nel Paese asiatico, 43 sono state inviate a impianti privi dei permessi per importare e riciclare rifiuti stranieri. È quanto emerge da un’indagine dell’unità investigativa di Greenpeace Italia, entrata in possesso di documenti riservati che mostrano come circa la metà dei rifiuti plastici italiani diretti in Malesia (il 46% su un totale di 2.880 tonnellate) sia finita in impianti privi delle autorizzazioni. Dietro ci sarebbe un traffico internazionale di rifiuti in plastica. D’altro canto, in seguito al bando cinese all’importazione di rifiuti del 2018, la Malesia è diventata rapidamente una delle principali destinazioni dei rifiuti in plastica del mondo.
L’INDAGINE DI GREENPEACE – L’organizzazione ambientalista ha già consegnato alle autorità competenti il dossier d’indagine. Con l’ausilio di telecamere nascoste sono state raccolte testimonianze video in alcune delle aziende malesi disposte a importare illegalmente i nostri rifiuti (plastica contaminata e rifiuti urbani compresi). Greenpeace ha anche documentato la presenza di rifiuti plastici provenienti dall’estero, Italia inclusa, abbandonati all’aperto senza alcuna sicurezza per l’ambiente e la salute umana. Rifiuti stoccati illegalmente, lavoratori che vivono all’interno delle fabbriche e incendi di materiali plastici. “Le telecamere nascoste mostrano imprenditori malesi disposti a importare e trattare rifiuti italiani, sia plastica contaminata che rifiuti urbani, pur non comparendo nella lista delle aziende malesi autorizzate e, quindi, essendo privi dei permessi necessari” spiega l’unità investigativa di Greenpeace Italia.
DOVE FINISCE LA NOSTRA PLASTICA DOPO IL BANDO CINESE – L’analisi si è concentrata sui rifiuti plastici misti, ovvero contenitori, film, pellicole industriali e residui plastici di ogni sorta, largamente utilizzati nella nostra vita quotidiana ma di difficile recupero e riciclo. Si tratta dei rifiuti che, fino a due anni fa, erano spediti prevalentemente in Cina, partner privilegiato capace di ricevere il 42% dei nostri rifiuti plastici esportati fuori dai confini europei. Tuttavia, nel 2018 il gigante asiatico ha fermato l’import di quei polimeri di plastica di scarsa qualità, poco riciclabili e, quindi, molto inquinanti. Così, a seguito del bando cinese, altri Stati, pur non essendo dotati di sistemi idonei ed efficaci di recupero e trattamento, sono diventati le nuove mete dei rifiuti globali. Tra questi, la Malesia è stata il primo importatore di rifiuti plastici italiani nel 2018 e resta tutt’ora partner privilegiato dell’Italia (dato Eurostat confermato nei primi nove mesi del 2019), garantendosi il secondo posto – dopo la Turchia, con 7mila tonnellate importate – per un valore di quasi un milione e mezzo di euro.
INTERVENTI INEFFICACI – Il governo malese ha provato ad arginare gli effetti del bando cinese. Come ha confermato la stessa Zuraida Kamaruddin, ministra malese dell’Edilizia abitativa e del Governo locale con delega alla gestione delle materie plastiche, nel 2018 delle 114 aziende autorizzate a importare e trattare rifiuti plastici stranieri “solo 54 erano attive e, del totale, solo otto rispettavano veramente le condizioni stabilite”. Così, a fine luglio 2018 c’è stato un primo giro di vite contro il business illegale della plastica: da agosto 2018 tutte le industrie di riciclo sono rimaste senza licenza e, fino a fine dicembre 2018, la procedura per ottenere le autorizzazioni per l’import di rifiuti di plastica è stata messa in stand-by, ufficialmente per permettere alle autorità malesi di realizzare controlli a tappeto che avrebbero poi portato alla chiusura di oltre 155 fabbriche illegali. Eppure, invece di un prevedibile stop dei flussi, Greenpeace ha documentato come da agosto a dicembre 2018 circa 3.500 tonnellate di rifiuti in plastica siano state spedite dall’Italia verso la Malesia, per un valore di 660mila euro. Una cifra non trascurabile, se si pensa che da gennaio a luglio 2018 (con l’import ancora aperto) l’Italia ha spedito in Malesia 9.400 tonnellate di rifiuti in plastica. Nel 2019, quando la procedura per il rilascio delle autorizzazioni è stata riattivata, la Malesia ha riprovato a bloccare il flusso illegale. In aggiunta al permesso che le aziende dovevano già ottenere per importare e riciclare rifiuti plastici stranieri (concesso sulla carta solo a impianti che rispettano 16 condizioni di certificazione) è stato approvato il divieto di importare rifiuti di plastica contaminati, ovvero plastica non riciclabile o di bassa qualità.
LA SCOPERTA – Greenpeace Italia ha però potuto confrontare documenti riservati con l’elenco delle 68 aziende malesi che da gennaio a settembre 2019 sono state le sole a essere autorizzate a importare e trattare rifiuti plastici dall’estero. “Controlli incrociati – spiega Greenpeace – hanno evidenziato come sia continuato l’export italiano verso aziende malesi che agiscono illegalmente perché prive dei requisiti obbligatori per legge”. Nei primi nove mesi del 2019 questo traffico illecito ha coinvolto il 46% dei rifiuti in plastica italiani in termini di peso, pari al 66% delle spedizioni dirette in Malesia.
LA NORMA IN ITALIA – Le spedizioni, stando alla normativa, dovrebbero seguire un iter molto rigoroso, in base al regolamento (CE) 1013 del 2006, che mette nero su bianco l’obbligo per i Paesi europei di spedire i propri rifiuti plastici fuori dall’Ue esclusivamente per ‘riciclo e recupero’. Gli impianti di destinazione devono avere standard ambientali e tecnici pari a quelli comunitari e operare con ‘metodi ecologicamente corretti’. Non si possono, inoltre, spedire rifiuti lontano dai confini europei per smaltimento (‘messa in discarica’ e ‘incenerimento a terra e in mare’). “La normativa malese, con il dovuto rispetto, non equivale neanche lontanamente a quella europea” spiega la giurista ambientale Paola Ficco. “L’esportazione dovrebbe essere l’ultima ratio” aggiunge, anche perché “una società tecnologicamente avanzata deve essere in grado di gestire i propri scarti”.
CHIEDONO INTERVENTO – “Come è possibile che aziende italiane abbiamo potuto continuare a spedire rifiuti ad aziende malesi prive delle autorizzazioni necessarie?” si domanda Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna Inquinamento di Greenpeace. D’altro canto, anche la gestione italiana presenta alcune lacune. Dovremmo spedire a Paesi extra Ue esclusivamente plastica adatta per il riciclo e il recupero. E invece cosa si trova nei nostri container? “Quasi sempre si tratta di rifiuti plastici elevati in quantità, ma di qualità molto bassa” racconta Renato Nitti, sostituto procuratore della Repubblica della Direzione distrettuale antimafia di Bari. Ciò che trasportano i container non corrisponde quasi mai a quanto dichiarato. Come conferma YB Ng Sze Han, del comitato esecutivo dello Stato malese di Selangor, “la maggior parte delle volte si tratta di un miscuglio di rifiuti plastici. La parte che può essere riciclata è davvero bassa, forse il 20-30%. Tutto il resto deve essere gettato da qualche parte”. Come è possibile? Secondo la Direzione distrettuale Antimafia, meno del 2,5% dei container che spediamo dai porti italiani è ispezionato con visita merci. “I volumi del traffico merci sono decisamente alti e le difficoltà nei controlli molteplici” aggiunge il sostituto procuratore Nitti. Giuseppe Ungherese definisce la situazione “inaccettabile”. E aggiunge. “Chiediamo alle autorità italiane di intervenire immediatamente per mettere fine a questo traffico illecito”.