Un (piccolo) pensiero per l’università dimenticata. In ritardo, con fondi riciclati da altri capitoli di spesa e un piano che di straordinario non ha quasi nulla (lo avevano già fatto gli ultimi tre governi). Ma sempre meglio di niente: il governo si prepara ad assumere 1.600 nuovi ricercatori. Lo fa a distanza di poco più di un mese dalle dimissioni dell’ex ministro dell’Istruzione, Lorenzo Fioramonti, che per la mancanza di finanziamenti alla ricerca se n’era andato sbattendo la porta e adesso al Fatto.it rivendica il suo gesto: “Questo non è un provvedimento da Milleproroghe: se in manovra non c’era e adesso viene approvato in fretta e furia è anche il risultato delle mie dimissioni. Lo dico con un pizzico di amarezza, ma se sono servite per rimettere al centro dell’agenda la ricerca sono contento”. Anche se poi l’ex ministro e parlamentare del Movimento 5 stelle, ora passato al gruppo misto, aggiunge: “Questa misura non basterà per uscire dall’emergenza: la nostra università ha bisogno di un piano pluriennale di investimenti almeno 5 volte maggiori”. Tanto che adesso il premier Conte annuncia in un question time al Senato un piano pluriennale di reclutamento da 10mila ricercatori: “Abbiamo avuto poco tempo in occasione della legge di bilancio ma c’è la consapevolezza che ricerca e istruzione sono priorità nella linea di sviluppo del Paese”, ha detto il premier alla Camera.
L’EMENDAMENTO “RIPARATORIO” – Per il premier Giuseppe Conte e il nuovo ministro per l’Università e la ricerca Gaetano Manfredi è il primo di una serie di provvedimenti destinati al settore. Per i più critici è solo una toppa, messa per giunta con colpevole ritardo. Riparatorio o meno, l’emendamento è comunque una buona notizia per il mondo accademico: prevede di assumere 1.600 ricercatori, e di farlo con i soldi inizialmente stanziati per la nuova Agenzia Nazionale della Ricerca, una nuova struttura creata nell’ultima finanziaria per coordinare il settore ma di nomina politica, che aveva suscitato non poche politiche. Di fatto si tratta quindi di una doppia retromarcia: l’ente neonato dopo poche settimane viene già svuotato di fondi (circa la metà dei 200 milioni totali), dirottati sul personale, vera priorità del sistema. Un po’ come era già successo alle vecchie “cattedre Natta”, altra invenzione governative poco gradita agli accademici.
RICERCATORI, MERCE RARA – Quando parliamo di 1.600 ricercatori dobbiamo intendere quelli di Fascia B, i cosiddetti RtdB. È un profilo nato con la riforma Gelmini del 2010, che aveva cancellato la figura del ricercatore a tempo indeterminato, per creare due nuove categorie: i ricercatori di tipo A, con contratti da 3+3 anni, che alla scadenza o partecipano a un concorso (ma non ce ne sono quasi mai) o di fatto escono dal sistema; i ricercatori di tipo B (3+ 2 rinnovabili), che poi transitano direttamente nel ruolo di professori associati senza concorso (a patto che intanto abbiano conseguito l’abilitazione scientifica nazionale). Va da sé che mentre i primi contratti sono poco più che assegni di ricerca, i secondi rappresentano un vero canale di reclutamento universitario. Per anni, però, era rimasto chiuso.
IL “SOLITO” PIANO STRAORDINARIO – Una prima svolta è arrivata nel 2015: sotto il governo Renzi e la gestione di Stefania Giannini ci fu il primo piano straordinario a distanza di diversi anni per assumere nuovi ricercatori, circa 1.000. Da allora tutti i governi che si sono succeduti ne hanno varato uno: 1.200 con Gentiloni, 1.500 con il Conte I. In questo senso il Conte II si muove in continuità: sono un po’ cresciuti i numeri (adesso 1.600 unità, probabilmente tutte destinate agli atenei e non da dividere con gli enti di ricerca), bisognerà capire quali saranno i criteri di ripartizione, ma nelle assunzioni non c’è nulla di rivoluzionario. La notizia, semmai, sarebbe stata la mancata indizione di un nuovo bando.
I NUMERI DELL’EMERGENZA: PERSI 10MILA DOCENTI IN 10 ANNI – Per capire la reale portata del provvedimento bisogna guardare i numeri del sistema: negli ultimi dieci anni, per intenderci dalla riforma Gelmini del 2008 in poi, l’università italiana ha perso circa 10mila docenti. Questi 1.600 ricercatori di fascia B, che al termine del loro percorso diventeranno professori associati, danno solo una boccata d’ossigeno, considerando anche che ogni anno ci sono circa 1.200 pensionamenti. In attesa ci sono 4mila ricercatori a tempo indeterminato più altri 13mila assegnisti, senza contare tutti quelli che sono usciti dal sistema ma avrebbero l’ambizione e i titoli per rientrarci. Insomma, una goccia nell’oceano o un segnale positivo, sicuramente non la soluzione di tutti i mali: la precedente amministrazione Fioramonti aveva calcolato in 2.000-2.500 assunzioni per 5 anni di fila il fabbisogno necessario a tornare ai livelli pre-Gelmini. Lo stesso numero annunciato da Conte in questi giorni al Senato. Per ora, però, siamo fermi ai 1.600 ricercatori, su cui anche Matteo Piolatto, segretario dell’Associazione dottorandi italiani (Adi), si mantiene prudente: “I piani straordinari sono stati utili e sicuramente lo sarà anche questo, ma non risolveranno il problema di fondo: stiamo solo facendo il minimo indispensabile, che non si è fatto per anni. Diverso sarebbe se dovesse arrivare un vero piano di investimenti per il futuro”. L’università italiana lo aspetta da tempo.
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