Scienza

Coronavirus, una pandemia ora sembra improbabile. Il rischio maggiore semmai è un altro

Prevedere lo sviluppo di una epidemia dovuta a un virus in precedenza ignoto, come quella dovuta al coronavirus 2019-nCov emerso a Wuhan in Cina, è molto difficile e lascia un ampio margine di incertezza. La domanda che tutti ci poniamo è: potrebbe il 2019-nCov scatenare una pandemia mondiale dall’esito grave o gravissimo? Sebbene sia impossibile escludere in modo tassativo questa ipotesi, essa appare al momento estremamente improbabile.

Zhong Nanshan, l’epidemiologo cinese che aveva diretto le azioni contro la Sars, ha stimato che il massimo numero di casi sarà raggiunto entro la fine del mese di febbraio, poi l’epidemia comincerà a calare; i dati per ora gli danno ragione. L’andamento di questa epidemia al momento sembra seguire la dinamica descritta molti anni fa da Reed e Frost: presenta un rapido aumento iniziale dei casi, un periodo di picco di breve durata e poi si esaurisce. Analizzando l’andamento dei casi registrati finora si può osservare che il numero di nuovi casi giornalieri ha raggiunto un massimo il 4 febbraio scorso e da allora sta lentamente calando.

Il numero di casi totali è attualmente ancora in crescita, ma questo dipende dal fatto che la durata della malattia è relativamente lunga e i casi che vanno a guarigione oggi erano insorti due o tre settimane or sono; è facile prevedere che, se gli andamenti registrati finora saranno confermati, nello spazio di un paio di settimane dovrebbe iniziare anche il calo del numero di malati. Del resto l’epidemia era già da tempo uscita dalla fase di progressione esponenziale.

Semplificando al massimo, la popolazione rispetto all’agente patogeno è in ogni momento costituita da individui suscettibili, individui malati e individui guariti e resi immuni dalla malattia, quindi non più suscettibili. Questa descrizione esclude alcune possibilità più complesse, quali i microorganismi che causano nell’uomo lo stato di portatore sano (e che generano dinamiche diverse dal modello di Reed e Frost).

Alcuni virus, come ad esempio il morbillo, o in tempi storici il vaiolo, sono così contagiosi che l’epidemia si ferma quando sono diventati troppo rari gli individui non immuni; in pratica la stragrande maggioranza dei membri della popolazione viene colpita e infatti prima del vaccino il tasso di sieroconversione del morbillo misurato all’età di 15 anni era del 90%. Altri virus (tra i quali presumibilmente anche il 2019-nCov) distinguono nella popolazione non immune individui più e meno sensibili all’infezione; in questi casi l’epidemia si interrompe molto prima di aver colpito la maggioranza della popolazione.

Ci sono poi vari fattori esterni che possono interrompere una epidemia prima che sia stata colpita la maggioranza della popolazione non immune, come sembra stia avvenendo per 2019-nCov, ad esempio perché il contagio è inibito da condizioni ambientali avverse al virus per temperatura e umidità (in questi casi le epidemie assumono andamenti stagionali), oppure perché la malattia risponde alle misure di contenimento messe in atto dalle autorità sanitarie. E’ certo però che, se non è disponibile un vaccino, le misure di contenimento delle epidemie risultano efficaci soltanto se la malattia è poco contagiosa: se cioè la trasmissione richiede un contatto interumano non casuale ma intimo e prolungato, come una convivenza.

Questo sembra essere il caso di 2019-nCov, che ha mostrato una scarsissima propensione a trasmettersi da individuo a individuo nei paesi diversi dalla Cina: portato da turisti o lavoratori che l’avevano contratto in Cina e che non avevano contatti estesi e prolungati con gli abitanti dei paesi stranieri nei quali si recavano, il virus non ha, per ora, generato epidemie secondarie.

Come tutti sanno, influenza, vaiolo, morbillo e molte altre malattie virali non sono contenibili perché il contagio può avvenire anche a seguito di incontri di durata minima, e prima che la malattia diventi sintomatica. Una tipica epidemia di influenza stagionale colpisce il 10% della popolazione in un periodo di circa sei mesi: in Italia una media di circa un milione di nuovi casi ogni mese, con oltre 2,5 milioni nel mese di picco.

Sebbene la letalità delle epidemie influenzali tipiche sia bassa, inferiore allo 0,1%, e in larga misura concentrata sui soggetti anziani o sofferenti di altre patologie, la larga diffusione della malattia causa ogni anno una mortalità pari a circa 1 decesso ogni 10.000 abitanti; in Italia oltre 5.000 decessi ogni anno e 250 decessi al giorno nei periodi di picco.

L’attuale epidemia da 2019-nCov, a dispetto di una letalità piuttosto elevata, è molto lontana da queste velocità di diffusione, e sembra ragionevole suggerire che anche il numero delle persone colpite sarà di molto inferiore, a meno di mutazioni che alterino significativamente il comportamento di 2019-nCov. Il rischio maggiore segnalato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, al momento, è il possibile sviluppo di epidemie secondarie in paesi in via di sviluppo, che potrebbero non essere in grado di imporre le drastiche misure di contenimento adottate in Cina. Soprattutto per questo motivo è molto importante produrre e distribuire rapidamente un vaccino.

Fonte: world-o-meter