Televisione

Sanremo: l’importante è competere (e magari anche vincere). Poi, però, dimenticare subito

Nel 2016 ebbi la ventura di guardare in tv il festival di Sanremo, per intero. Un dovere, senza trascurare neanche una inquadratura né una nota, giacché Il Secolo XIX mi aveva affidato una rubrica di occasione: “Un idraulico in poltrona”. In virtù del mio hobby: la musica, non l’idraulica. E fu una bella esperienza.

Nell’ultimo festival che avevo seguito – via radio perché dopo Carosello mia madre spegneva il televisore – Bobby Solo aveva cantato in playback una canzone alla moda di Elvis; ed era stato escluso dalla classifica, non per l’imitazione di Elvis, ma per il playback. Insomma, non conservavo ricordi recenti, ma la novità mi stimolava. E così ho seguito anche quest’anno l’ultima, interminabile puntata della saga sanremese.

Nel 2016 avevo pensato a una situazione da mondiali di calcio del 1982. “Tutti in panchina di fronte alla Tv con birra, patatine e spaghettata aglio e olio finale. Signore comprese, perché non è una partita di calcio” era stato il mio disperato appello. All’unisono, familiari e affini, amici e colleghi, perfino il giornalaio peruviano, il medico di famiglia e il cane del vicino mi evitarono per tutta la settimana. Begli amici. Tutti radical chic se non comfortable communist, anche se, in verità, nessuno di loro è comunista, né credente né tampoco praticante. Se si misurasse l’audience sul campione di costoro… addio Festival! Ma gli intellettuali non sono l’audience. E neppure il cane del vicino fa parte del campione statistico.

Nei rari casi in cui non ignorano del tutto l’evento, gli intellettuali assistono al Festival con la stessa confidenza che concederebbero a una gara di rutti. Nel 1968 a Sanremo vinse Sergio Endrigo assieme al brasiliano Roberto Carlos con una canzone minimalista, tra le più dolci e tristi nella storia del Festival. Era stata arrangiata da Luis Bacalov, premio Oscar per la colonna sonora del film Il Postino. Ed Ennio Flaiano – che per caso, s’intende, per puro caso aveva seguito il Festival in casa di amici – scrisse: “Non ho mai visto niente di più anchilosato, rabberciato, futile, vanitoso, lercio e interessato”.

Gli scienziati sono meno diffidenti dei letterati. Nel 1999 il Nobel Renato Dulbecco affiancò il presentatore ufficiale e la sua graziosa valletta con la benedizione del collega Carlo Rubbia, che aveva borbottato di una decisione coraggiosa e positiva. Dall’eterno Zichichi, già docente di Fisica ma senza Nobel, era giunto un ulteriore incoraggiamento: “Non deve limitarsi a fare il presentatore. Far sapere al mondo che esiste la scienza è fondamentale. Il calcio e le canzoni sono gli unici palcoscenici, in Italia, che assicurano 20 milioni di spettatori”. E in una video-intervista rilasciata a Roberto Saviano un pentito di camorra ha poi confessato: “Sanremo? Un appuntamento immancabile per i boss”.

Anche se nacque in un’epoca solidale come il primo dopoguerra, il Festival è moderno, perché in sintonia con l’archetipo della competizione che pervade la società globalizzata. Si compete ovunque: la classifica del debito sovrano guida il mercato, quella di topuniversities.com detta l’agenda delle università, quella Atp il tabellone dei tornei di tennis. “Se Atp stesse per Associazione dei Tennisti in Poltrona potresti entrare nei top 10” mi canzonava il maestro di tennis; e, con disappunto, ho poi saputo che, invece, Atp è l’acronimo di Association of Tennis Professionals. Si compete dappertutto, a Wall Street come a Scampia, anche se i mezzi non sono gli stessi: a Scampia le armi di distruzioni di massa non le hanno.

L’importante è competere e, naturalmente, vincere. Poi dimenticare subito, perché tutti fanno il tifo ma, dopo poco tempo, nessuno ricorda più chi ha vinto e chi ha perso. E solo alcune, poche canzoni rimangono, magari per sempre. Davanti ai mille Roxy Bar del nostro paese tutti canticchiano Vita spericolata di Vasco ma nessuno ricorda che gareggiò a Sanremo, penultima in classifica. Così come grandi canzoni, rimaste nel cuore della gente come Gianna e You don’t have to say you love me, sono passate in sordina da lì e senza medaglie.

Sanremo è l’ultima roccaforte decoubertinana dove conta partecipare, non vincere. E perfino ritirarsi dal palco litigando, ma con fragore: anche il rumore ha un suo perché, come ci ricorda la (bella) canzone che ha vinto quest’anno. Una canzone che merita un posticino nel futuro della memoria. Solo Luigi Tenco, il grande musicista che trasformò il quartultimo posto in tragedia, non aveva capito che conta esserci, non vincere.

Scrive Marco Menduni su Il Secolo XIX che 50 euro al giorno è il compenso di molti musicisti che si esibiscono sul palco dell’Ariston. Prove estenuanti e tempi di lavoro interminabili: dalle 10 del mattino fino a fine diretta tv, spesso dopo la mezzanotte. Ma una bella porzione di ciò che ascoltiamo è frutto del playback, scaturisce da una chiavetta usb, il moderno supporto digitale della musica già confezionata. Per gli esperti, almeno il 30 per cento degli arrangiamenti di Sanremo sarebbe preconfezionato, anche perché il digitale ci ha abituati ad ascolti perfettamente in tono: mai una sbavatura, neppure 5 centesimi di semitono. Alle voci in diretta pensa Autotune live e, con l’intelligenza artificiale, anche dei musicisti non ci sarà più grande bisogno in futuro.

Quando, premendo off sul telecomando, ho esaurito in solitario tutte le mie ore di tv del 2020 erano le due di notte. Un Giuda da salotto – un amico che aveva schivato tutti i miei inviti del 2016 ma, evidente, ha seguito il Festival 2020 di soppiatto e naturalmente per puro caso – mi ha whatsuppato: “Game over, Rosso: ritorna in te! E non dimenticare che, quando pattumerai anche questa edizione, c’è chi va nella plastica. L’importante è che non finisca in mare”.

Era appena finita un’altra edizione in Mi-bemolle minore, come Il Trovatore di Verdi, che inizia in Mi maggiore e termina in Mi-bemolle minore: slittare di un semitono, e da maggiore a minore, esprime l’esaurimento della storia, dal fuoco della passione al tragico epilogo. Proprio come Fai Rumore che, se l’orecchio non mi ha tradito, mi pare armonizzata proprio in quella tonalità: Mi-bemolle minore.