Dagli anni ottanta al 2020 - tra Muro di Berlino, Tangentopoli e Movimento 5 Stelle - un quartetto di adolescenti romani si unisce, divide, cornifica e riappacifica, diventando adulti in un'epoca senza grandi slanci politici né ideali. Quartetto di star in scena: Kim Rossi Stuart, Pierfrancesco Favino, Claudio Santamaria e Micaela Ramazzotti. Più la cantante Emma all'esordio da attrice
A ogni generazione la sua dimensione epica. Con questo concetto dovremmo prima o poi fare i conti. “Gli anni più belli”, dodicesimo film di Gabriele Muccino, è “C’eravamo tanto amati” di Ettore Scola dentro a un frullatore Ikea. E non poteva essere altrimenti. Lo srotolamento del racconto generazionale, l’epos di un’amicizia tra tre ragazzi e una ragazza che attraversa 40 anni di storia italiana e mondiale – dai primi anni Ottanta alla seconda decade dei Duemila, il Muro di Berlino, Tangentopoli e perfino il Movimento 5 Stelle – si colloca in un periodo storico che non ha più nulla di così tremendamente politico, ma anche di vagamente idealistico da raccontare.
La colonna sonora, per dirne una, esemplifica l’assunto: non potendoci essere il rock ribelle, ci sono “Il capitan Uncino” di Bennato, il tema de “Il tempo delle mele” e un bel Baglioni composto ad hoc. Insomma, chi è passato prima, più che dare luce, infatti, sembra aver fatto artisticamente ombra. E Muccino si colloca proprio sotto quel macigno del passato degli Scola-Monicelli-Risi, in un pertugio controluce da cui osservare in moto perpetuo le briciole dei “trenta gloriosi” vissuti da quattro ragazzetti che prima di tutto non hanno mai avuto intenzione di voler cambiare il mondo. Onesto Muccino, con Paolo Costella allo script, lo è da subito: i suoi protagonisti semplicemente sopravvivono provando a non soffrire troppo (il loro motto, brindisi della ritrovata unità dopo anni è: “Alle cose che fanno stare bene”). Ad alimentarne le gesta, i successi, le speranze, i fallimenti, le delusioni, c’è tanta tigna, molta inadeguatezza, la ripetizione probabilmente stinta e svuotata di modelli anteriori più ‘alti’.
Alcuni topoi narrativi muccianiani riemergono carsicamente – le case piene di genitori morenti, le corse su per le scale, gli scazzi con apici tra corridoi e cucina degli appartamenti – mentre la foga stilistica nella messa in scena è sempre la stessa, con quell’arrembante presenza della macchina da presa alla ricerca di nervosi piani sequenza in mezzo a situazioni già strizzate drammaturgicamente all’estremo (disgrazie, morti, tradimenti, abbandoni, scontri ecc…). Quella personale, generosa e parossistica forza centripeta di stare addosso agli attori, di roteargli a dieci centimetri dal naso, e a stordire lo spettatore.
Altro limite di non poco conto è la mancanza di uno sfondo ambientale significativo. La Roma de “Gli anni più belli”, in cui scorrono filtrati quarant’anni d’Italia, è uno spazio fugace, intravisto, baluginante, vago. Poi come nel film di Scola (“liberamente tratto da”) slanci ed impeti individuali vengono come scoloriti dall’incedere degli anni e l’ultima mezz’ora di film (dura 129 minuti) ha una specie di rallentamento, di decelerazione, di pacata osservazione finale dell’effetto della variabile tempo sui protagonisti. “Gli anni più belli” dopo aver rotolato freneticamente si ferma, si cristallizza, in una casa balcone sull’anno che verrà. Muccino cerca il lieto fine, lo rincorre paradossalmente stando fermo. È la sintesi della tragedia di uomini ridicoli più che il Novecento della Storia. Ma è giusto questo (e poco? è nulla? è tutto?) quello che si è voluto rappresentare. Almeno si spera. Film destinato a incassi ragguardevoli grazie anche al trio Favino-Rossi Stuart-Santamaria già top di gamma in “Romanzo Criminale”.