In questo inverno che inverno non è – e ogni volta ci stupiamo, ma ormai è la regola -, in un giorno di föhn con 17 gradi di temperatura esterna, incontro una ragazza in ascensore che si dice contenta di quel “dolce tepore”. Proprio così, lo chiama “dolce tepore”. Lasciatami alle spalle la porta dell’ascensore penso: questa persona vota.

Ma è giusto? Innanzitutto decolonizziamo la nostra mente pensando che quello che è legale (votare è legale, e non solo, è addirittura un diritto/dovere) non necessariamente è appunto giusto. Parliamo di questa benedetta democrazia.

Non sono pochi oramai coloro che nutrono dubbi circa questa democrazia, con la quale da un lato chi vota lo fa spesso solo sulla scorta di una emozione o di una suggestione mentre chi viene votato sempre più spesso è persona, a essere teneri, di modesto livello.

La democrazia dal basso praticata dai Cinquestelle si è visto che cosa ha prodotto. E chi viene votato, oltre che di mediocre intelligenza, si rivela pure spesso inaffidabile: promette e non mantiene, cambia casacca, muta obiettivi.

Alla fin fine, cos’è questa democrazia, la nostra democrazia? Gente disinformata che vota inguardabili. E c’è pure chi sostiene di dare il voto ai sedicenni, quando estendere il voto a coloro che sono ancor più disinformati è stupido quanto il bonus bebè in un mondo sovrappopolato.

Ma torniamo a questo “governo del popolo” e ai disastri che sta producendo. Non sono pochi coloro che si stanno domandando se sia vero che la democrazia, o per lo meno questo tipo di democrazia, sia davvero la migliore forma di governo auspicabile. Uno è stato ad esempio Simone Perotti, in un suo discusso e provocatorio (?) post apparso sul blog de Il Fatto Quotidiano.

E già qualcuno, apertamente o velatamente (anche gente già di sinistra, pensate), riesuma il concetto di epistocrazia, coniato dal filosofo David Estlund per definire un sistema politico in cui il diritto di voto è subordinato alla conoscenza degli argomenti, della realtà. Concetto ripreso e supportato da Jason Brennan nel suo libro Contro la democrazia.

Del resto, soffermiamoci un attimo a pensare: appare chiaro che le magnifiche sorti del progresso sono finite, che la crescita infinita nel mondo finito non esiste e chi ancora si riempie la bocca di sviluppo e Pil è un morto che parla. Ci attende un futuro di frugalità. Ma se non vogliamo che sia invece di miseria, la frugalità deve essere condotta per mano da un saggio legislatore.

Massì, diciamolo, è la decrescita. E solo in una epistocrazia si può coscientemente eleggere qualcuno che la proponga nel proprio programma elettorale. Si richiede capacità, conoscenza per guidare un’automobile? Richiediamola per andare a votare.

Non deve stupire peraltro più di tanto questa, chiamiamola così per il momento, “suggestione”: già nell’antica e democratica Grecia, Platone ammonì sulla pericolosità di una democrazia in cui la gente votava sull’onda di suggestioni, anziché di conoscenza della realtà.

E se solo gli informati potessero votare, di necessità si presenterebbero come candidate persone coscienti del fatto che la politica è una missione, un duro lavoro, al servizio del popolo e non dei propri affari personali o delle lobby.

Almeno un risultato lo si otterrebbe: non avremmo più mezze figure o modelle in Parlamento, oppure conduttori televisivi, né grandi fratelli o influencer o pregiudicati, e neppure, vivaddio, bevitori di mojito. Non è poi così malaccio come prospettiva.

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