“Like war, impeachment is hell”: come la guerra, l’impeachment è un inferno. Questo giorni fa disse, con molto compunti accenti, Kenneth Starr, uno dei più prominenti tra gli assai prominenti avvocati del collegio di difesa di Donald J. Trump. E sebbene nessuna sonora risata abbia, a seguito delle sue parole, rotto l’affettata solennità del protocollo, assai probabile è che proprio quello sia stato il momento più comico e surreale d’uno spettacolo – il processo in realtà mai neppure cominciato contro il 45esimo presidente degli Stati Uniti d’America – che nel ridicolo e nell’assurdo è costantemente navigato tra il 16 di gennaio e il 5 di febbraio scorsi.

Ovvia domanda: che cosa c’era di tanto ridicolo e di tanto surreale nelle parole dell’avvocato Kenneth Starr? In sé, assolutamente nulla. E anzi sicuramente solida – anche se più o meno condivisibile – era l’architrave giuridico-politica che sosteneva la sua arringa difensiva. L’impeachment del presidente in carica, aveva argomentato Starr, sottopone la Nazione a un tremendo trauma che può essere adeguatamente affrontato solo sulla base d’un giudizio largamente bipartisan, d’un pressoché unanime appoggio della pubblica opinione ed esclusivamente in presenza di reati d’eccezionale gravità. Tre condizioni che a giudizio di Starr, nel caso del processo contro Trump, non sussistevano.

A trasformare in una sorta di sfrontato siparietto comico quell’arringa erano in realtà non i concetti e le parole, ma l’uomo, le molto specifiche labbra dalle quali quei concetti e quelle parole andavano fuoruscendo, sfarfallando allegre tra i banchi del Senato. Perché? Perché quelle labbra – parte d’un volto che, date le circostanze, si può solo definire “di bronzo” – appartenevano, per l’appunto, a Kenneth Starr. A quel medesimo Kenneth Starr che 22 anni or sono aveva condotto le indagini che portarono, lungo molto tenebrosi sentieri, all’impeachment di Bill Clinton.

Ovvero: ad una messa in stato d’accusa del presidente in carica che non aveva alcuna base bipartisan, che era apertamente avversata dalla pubblica opinione e che si basava su reati – o meglio su comportamenti – che, contrariamente al caso di Trump e dell’Ucrainagate, concernevano esclusivamente la vita privata dell’imputato.

Proviamo a ricapitolare. Bill Clinton era stato, a suo tempo, accusato d’avere mentito sotto giuramento in merito alla relazione amorosa che andava intrattenendo con una giovane stagista della Casa Bianca, Monica Lewinsky. Alla tutto sommato innocente tresca tra Bill e Monica – consumata in rapidi incontri ai margini dell’Oval Office – Kenneth Starr era giunto partendo da molto lontano. Più esattamente: da uno scandaletto immobiliare consumatasi in Arkansas, quando ancora Clinton era governatore dello Stato. E la sua era stata – sotto gli auspici d’una assai aggressiva maggioranza repubblicana nel Congresso – una vera e propria caccia all’impeachable crime. Quale? Qualunque.

Fu così che, dopo ben più di tre anni d’indefesso indagare, lasciatosi alle spalle gli Ozarks, l’Arkansas e una infinità d’altre tappe intermedie, Kenneth Starr giunse infine sul luogo del delitto. Vale a dire: alla Casa Bianca. E, guardando dal buco della serratura, scoprì la relazione tra il presidente e la stagista. Il gioco, a quel punto, era fatto. Bastava tendere una trappola – spingere Bill Clinton a negare sotto giuramento quella relazione – e, quindi, afferrare la preda.

Bill Clinton venne messo sotto accusa il 19 dicembre del 1998. Poco più di tre mesi prima, l’11 di settembre, Kenneth Starr aveva concluso l’opera diffondendo pubblicamente, on line, un chilometrico j’accuse che non si limitava affatto a esporre in termini legali le colpe dell’imputato. Erano piuttosto, quelle 400 e passa pagine di rapporto, un vero e proprio racconto erotico ricolmo di pruriginosi e compiaciuti dettagli, evidentemente tesi molto più a umiliare il reo che a definirne le colpe.

Qualcuno potrebbe a questo punto avanzare l’ipotesi che l’esibizione anti-impeachment di Starr sia in realtà stata non il tragicomico siparietto sopra ipotizzato, ma una sorta d’atto di pubblica contrizione, il coraggioso mea culpa d’un uomo che quell’inferno ben lo conosce perché ne è, a suo tempo, stato causa. E che oggi, cosparso il capo di cenere, si mortifica di fronte al mondo al fine d’evitarne la riproposizione.

Nulla potrebbe, però, esser più lontano dal vero. Il Kenneth Starr che due settimane fa – in un contesto che implicava ben più della incontinenza sessuale d’un presidente – ha inveito contro i pericoli dell’“impeachment facile” ha parlato con l’eterea leggerezza, o con l’affettata innocenza, di chi è appena disceso dal paradiso, concedendosi non più d’una molto fuggevole e neutrale referenza – “…come sanno quelli tra noi che hanno vissuto l’esperienza dell’impeachment di Bill Clinton…” – al Kenneth Starr del 1998.

Grottesco? Senza dubbio. Tanto grottesco, in effetti, che a questo punto è impossibile non chiedersi per quale bizzarra ragione Trump e l’ampia congrega dei suoi legali abbiano deciso d’affidare proprio a Kenneth Starr questa molto specifica parte della linea di difesa. A questa domanda, essenziale per comprendere la vera natura dell’assoluzione di Trump, proverò a rispondere in un prossimo post.

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