Cronaca

Da piazza di Spagna e Charlize Theron al fallimento: storia di Balloon, marchio di moda rovinato da una fideiussione “omnibus”

La vicenda è quella dei march nati a Roma negli anni ‘70 e a un certo punto diffusissimi in tutta Italia. Poi all’inizio degli anni 2000 la crisi di liquidità e il precipizio, certificato con la sottoscrizione di uno strumento finanziario per il quale la famiglia di imprenditori da tempo ha fatto ricorso in giudizio contro l’Unicredit. A distanza di 16 anni da quella firma, oggi i Greco si aspettano almeno una transazione economica da parte della banca, nel tentativo di salvare le proprie abitazioni

Uno dei brand italiani di moda casual più popolari negli anni novanta è fallito dopo aver sottoscritto una fideiussione “omnibus”, che la Corte di Cassazione ha dichiarato nulla con tre sentenze emesse su altri casi dal 2017 al 2019. Precedenti che ora potrebbero pesare in giudizio, almeno in sede civile. La vicenda è quella dei marchi Balloon e Blunauta, nati a Roma negli anni ‘70 e a un certo punto, verso la fine del secolo, diffusissimi in tutta Italia, con una giovane – ma già molto nota – Charlize Theron che prestò il suo volto a una delle collezioni di punta realizzate nella boutique di piazza di Spagna. L’intuizione dei fratelli Greco fu quella di andare a prendersi le materie prime direttamente in Cina. Poi all’inizio degli anni 2000 la crisi di liquidità e il precipizio, certificato con la sottoscrizione di uno strumento finanziario per il quale la famiglia di imprenditori da tempo ha fatto ricorso in giudizio contro l’Unicredit.

A distanza di 16 anni da quella firma, oggi i Greco si aspettano almeno una transazione economica da parte della banca, nel tentativo di salvare le proprie abitazioni sull’Appia Antica (tuttora ipotecate), ultimi baluardi di un importante patrimonio immobiliare ormai dilapidato. “Siamo esausti, speriamo di arrivare a questo risultato più volte ventilato”, dice a ilfattoquotidiano.it Roberto Greco, 73enne capostipite della famiglia. La fideiussione, una “garanzia senza limiti in bianco”, come spiegano i legali degli imprenditori, fu richiesta da Unicredit per garantire “personalmente e illimitatamente” i debiti dell’azienda “che aveva un ampio patrimonio immobiliare, assai più alto del debito con la banca”, in quanto “solo gli uffici centrali sono stati periziati in 7 milioni di euro di valore, mentre il debito era di circa 6 milioni”. Il prodotto bancario fu sottoscritto da tutti e tre i fratelli, Roberto, Gabriella e Giorgio Greco.

Gli avvocati ritengono che le fideiussioni rese a Unicredit non siano valide in quanto aderenti a quelle di cui la Cassazione, con sentenza n. 29810 del 12 dicembre 2017, ha sancito la nullità. Queste, infatti, sarebbero state sottoscritte in conformità al modello Abi del 2003. Ma proprio questo schema venne sottoposto al vaglio della Banca d’Italia che, con provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005, dichiarò che ben 3 articoli dello schema contrattuale fossero in contrasto con la legge 287/90, meglio nota come normativa per la tutela della concorrenza e del mercato (antitrust). La Suprema Corte ha poi applicato il pronunciamento del 2017 in altre due sentenze successive, la 3016/2018 e la 9354/2019, entrambe allegate al ricorso dei creatori del marchio Balloon. Si tratta di contratti bancari ampiamente utilizzati negli anni 2000 da diversi istituti bancari e su cui ci sono depositati nei tribunali italiani centinaia di ricorsi. Scrivono i legali: “La signora Gabriella Greco sottoscrisse la fideiussione senza che la stessa potesse avere alcuna possibilità di scelta in ordine alle condizioni contrattuali”; in pratica “fu obbligata onde evitare un danno ingiusto”, derivante dal fatto che “tutte le linee di credito concesse alla debitrice principale sarebbero state revocate”.

Va detto che la famiglia aveva anche fatto ricorso in sede penale contro i “tassi usurari” applicati, ma l’inchiesta riaperta nel 2016 dalla Procura di Roma è stata archiviata: “La banca non ha applicato tassi illeciti”, ha spiegato una perizia del tribunale. E comunque non sono stati trovati elementi per certificare l’eventuale dolo da parte della banca, che ha seguito lo schema contrattuale Abi. “Sono anni che combattiamo contro qualcosa di molto più grande di noi”, sottolinea Roberto Greco, che nel corso di questi 16 anni ha visto sgretolarsi quanto costruito in 30 anni di imprenditoria: “Oggi siamo esausti – dice – spero davvero che si arrivi a una conclusione e che la banca dia seguito genuinamente alla transazione più volte ventilata”.