Benedetta Capelli è un'ostetrica di Msf: lavora a Castor, a Bangui, in Repubblica Centrafricana, uno dei paesi con la mortalità infantile più alta. Racconta la storia di Aisha, giovane che ha visto la madre morire di parto e che ha perso un bambino. Perché nascere in sicurezza, in tanti paesi, è un lusso. La sua storia raccontata da Msf in esclusiva per ilfattoquotidiano.it
Arrivano a piedi, dopo aver camminato per ore, con le proprie gambe, trasportate su una brandina di ferro o in spalla a parenti o amici. Altre, invece, arrivano in ospedale in macchina, sdraiate sui sedili posteriori abbassati, dopo viaggi di diverse ore. Sono le donne che si presentano ogni giorno per un parto di emergenza negli ospedali di Medici senza frontiere di tutto il mondo, con la propria vita e quella del loro bambino attaccate a un filo. Nascere in sicurezza, per loro, è una rarità: sono tanti, infatti, i motivi per cui si nasce in emergenza. Dai conflitti armati, che limitano gli spostamenti delle persone timorose di diventare bersaglio di attacchi aerei e combattimenti, a sistemi sanitari fragili o del tutto assenti, che costringono le donne incinte a partorire in casa, con ostetriche non formate.
Benedetta Capelli è un’ostetrica di Msf: lavora a Castor, a Bangui, in Repubblica Centrafricana, uno dei paesi con la mortalità infantile più alta. E la maternità dell’ospedale di Castor è l’unica gratuita della capitale. “Nascere in sicurezza è un concetto non facile da spiegare alla gente ‘fortunata’ come noi, abituata ad associare le gravidanze a controlli medici e parti in ospedali con personale qualificato”, racconta in esclusiva per ilfattoquotidiano.it. La storia di Aisha, giovane donna incinta che abita in Repubblica Centrafricana, è emblematica.
“Quando era piccola – spiega l’ostetrica -, la sua famiglia si è trasferita dal villaggio d’origine a Bangui, la capitale. Nonostante abiti lì da più di 15 anni, lei in un ospedale non c’è mai stata: si ricorda solo la sua mamma, qualche volta, andare in una clinica per accompagnare uno dei suoi fratelli che stava male. Aisha abita nel quartiere musulmano della città, sede di scontri periodici tra gruppi armati, commercianti, militari o civili armati”. La ragazzina sa come nascono i bambini: ha visto sua madre partorirne cinque, a casa, aiutata da una levatrice del quartiere. “Ma Aisha si ricorda anche il giorno in cui sua mamma è morta appena dopo avere dato alla luce l’ultimo fratellino. Si ricorda il sangue, dappertutto. È per questo che, appena aveva scoperto di essere incinta la prima volta, aveva deciso di partorire nella clinica sanitaria del quartiere. Solo che, proprio nel periodo prossimo al termine della gravidanza, sono cominciati degli scontri in tutta la città. Chi usciva di casa sapeva di stare rischiando la vita, per donne e ragazzine ancora peggio”. Una sera Aisha sente che il momento è arrivato: comincia a sentire dei dolori al ventre, ma fuori c’è la guerra. “Suo marito la conforta dicendo che tutti i bambini nella sua famiglia sono venuti al mondo in casa, che andrà tutto bene. Solo che non va tutto bene, il bambino di Aisha alla nascita non piange e purtroppo non sopravvive”.
Le settimane che seguono sono fatte di dolore per la giovane, di vuoto e solitudine. Ma del resto, le dicono, è fortunata: avrà altre possibilità, visto che non è morta come sua madre. Va proprio così: dopo qualche mese è di nuovo incinta. “Gli scontri si sono finalmente placati, tuttavia muoversi di sera può essere ancora pericoloso. Ma questa volta Aisha parla con suo marito, insieme decidono che, costi quel che costi, cercheranno di raggiungere una clinica o un ospedale in tempo. Aisha si sente agitata e triste per tutta la gravidanza: ha paura che perderà il bimbo come la prima volta, forse morirà anche lei”. Come la volta precedente, una sera sente che il momento è arrivato: comincia a sentire dolori al ventre. “Suo marito riesce ad accompagnarla alla piccola clinica del quartiere, dove si ricevono cure e farmaci gratuiti. All’interno c’è anche una sala parto. Durante la notte – continua Benedetta – le ostetriche decidono di trasferirla all’Ospedale di Castor di MSF, la maternità più grande della città: conoscendo la triste storia del primo parto e vedendo che il travaglio corrente stia diventando un po’ troppo lungo, sospettano che Aisha necessiti di medici e forse, di una sala operatoria”. Questa volta ce la fa: Aisha partorisce un bimbo sano, senza complicazioni.
La storia di Aisha è quella di tante donne che si rivolgono a Medici senza frontiere: ogni due minuti un’équipe aiuta nel mondo una donna a far nascere un bambino, per un totale di 309.500 parti assistiti (dati 2018). “Vediamo donne che arrivano per un parto di emergenza senza mai aver fatto un’ecografia durante tutta la gravidanza. Quando le adagiamo sulla barella non sappiamo se il bambino sia vivo o meno, in che posizione si trovi, e nemmeno della possibile presenza di gemelli. Abbiamo pochi minuti per raccogliere tutte le informazioni e capire cosa fare”, racconta Giorgia Sciotti, ginecologa di Msf rientrata qualche settimana fa dalla sua seconda missione in Afghanistan. “A volte le donne raggiungono un nostro ospedale dopo aver già partorito e in shock emorragico. Mentre cominciamo la corsa frenetica alla ricerca del sangue, ci capita di vedere che il cordone ombelicale è stato tagliato con pezzi di lamiera o vetro, con il rischio consistente di infezione da tetano. E così, a poche ore dalla nascita, un neonato può già combattere per la vita”, spiega ancora Ileana Boneschi, ostetrica di MSF, che ha lavorato in Iraq e Afghanistan.
Per queste donne e i loro figli, Msf lancia la campagna di raccolta fondi “Nati in emergenza”: dal 16 febbraio al 7 marzo si possono donare 2 euro con SMS da rete mobile, 5 o 10 euro con chiamata da rete fissa al numero 45596, oppure online (qui). I fondi raccolti andranno a sostegno di 6 progetti: l’ospedale di Khost in Afghanistan, che con duemila bambini nati ogni mese è il più prolifico dei centri di MSF. Quello di Castor, a Bangui, in Repubblica Centrafricana, uno dei paesi con la mortalità infantile più alta, e quello di Mocha in Yemen, costruito nel 2018 vicino alla linea del fronte per curare feriti di guerra e assistere i parti in emergenza; la maternità di Mosul Ovest in Iraq, aperta nel 2017 per far fronte alla fuga di molti medici e paramedici; il centro di salute materno-infantile nel campo rifugiati di Shatila in Libano, dove siriani, palestinesi, libanesi e altre comunità vivono in condizioni drammatiche; e la clinica pediatrica fuori dal campo per migranti e rifugiati di Moria, sull’isola di Lesbo, dove donne e bambini vivono in uno stato di emergenza cronica e in un ciclo continuo di sofferenza umana.
(Nella foto: Stella, 22 anni, all’Ospedale di Castor, Bangui)