La morte di Lorenzo Seminatore riporta alla luce della cronaca la “emergenza” dei disturbi del comportamento alimentare (Dca). Chi come me se ne occupa da tempo sa bene che dietro tale emergenza mediatica si nasconde in realtà una problematica normalità quotidiana, vedendo ormai da anni crescere nei nostri studi l’afflusso di chi chiede aiuto per uscirne, con l’età media che va progressivamente abbassandosi.
Ciò che rende l’anoressia, e i disturbi del comportamento alimentare in generale, una patologia difficile da trattare, costituendo i Dca una tra le prime cause di morte specie nel mondo adolescenziale, è la peculiare caratteristica di celare con una forma esteriore abbastanza standardizzata strutture di personalità tra loro diverse (nevrotiche e psicotiche) , che richiedono metodi di trattamento all’insegna dell’uno per uno che, tenendo conto delle specificità di ogni soggetto, prevedano un opera di certosino collegamento tra professionisti con saperi diversi, imponendo un costante raccordo comunicativo con i familiari del malato.
La questione diagnostica è un elemento cruciale. Oggi infatti i parametri per definire i Dca sono oggetto di costante discussione: la diagnosi dell’anoressia nervosa è definita dai criteri del Dsm IV e dell’Icd 10, ma si calcola che una percentuale dal 40 al 60% dei pazienti con Dca non soddisfi i criteri diagnostici del Dsm IV. Nei casi più complessi – vale a dire quelli nei quali il concetto di ‘guarigione’ lascia il posto a quello di ‘compensazione’, che tecnicamente si definiscono ‘psicosi compensate’ – il corpo magro, il ritiro drastico dal fluire del mondo barattato con l’ossessione per il peso, i rituali di assunzione o espulsione del cibo sono strumenti che fungono in molti casi da elemento di ‘tenuta’, reperiti e rinforzati per evitare scompensi più profondi e gravi, dovuti per l’appunto a strutture più fragili non deflagrate.
La melanconia, o depressione grave, sovente si cela dietro alla patologia anoressica. Questo rende difficile il trattamento e frequenti le ricadute. Il depresso grave patisce un antico fuori scena, scontando una condizione di esclusione ab initio, un fuori squadra come dato costitutivo. Nella triangolazione edipica, il melanconico non è stato introdotto, non ha trovato forti mani che ne hanno circoscritto e protetto il posto.
Egli occupa così una posizione permanente di oggetto suscettibile di caduta, portatore di una provvisorietà radicale. Questa è la condizione che tanti depressi gravi cercano di neutralizzare nel corso della vita. Quando dietro ad un rifiuto patologico del cibo si cela un individuo di questo tipo, che ha un bisogno essenziale di una stabilizzazione dell’essere, i momenti critici della vita, i passaggi cruciali (il compimento alla maggior età, un matrimonio, un corso di studi, l’accesso al mondo del lavoro) possono rivelarsi troppo difficili da assorbire, determinando il riaffiorare di quella spinta al chiamarsi fuori che a fatica veniva nascosta dalla sintomatologia alimentare. Un richiamo mortifero, possente e sempre presente in questi casi, un buco nero che esercita una pressione mai doma, che a volte porta l’anoressia grave sino alle estreme conseguenze.
“Non mangio, così muoio” parrebbe aver detto Lorenzo. Questi pazienti se ben seguiti hanno momenti di ripresa e ritorno alla vita, i quali però non possono e non devono mai mettere il clinico in una situazione di tranquillità. Il modo col quale si segue terapeuticamente un soggetto nella fase post acuzie, quando c’è un recupero ponderale erroneamente scambiata da molti per guarigione, consiste in un’opera costante di attenzione e cura, avendo ben presente che si tratta di una compensazione, dunque non una guarigione definitiva, ma una stabilizzazione sempre soggetta ad oscillazioni pericolose. Sul male oscuro, si presenti esso sotto forma di corpo magro o di ritiro sociale, serve una luce professionale sempre accesa e vigile.