La madre e il padre hanno scelto di raccontare la storia del figlio per denunciare la mancanza di strutture di assistenza: "Bisogna affrontare il fenomeno, a iniziare dal punto di vista legislativo. Le strutture pubbliche non sono abbastanza e non c'è un sistema che sappia dirti a chi rivolgerti. È necessario mettere mano alla normativa, perché c'è un vuoto"
L’adolescenza che sembrava serena, la passione per il tennis e per il calcio. Le partite dell’Inter e i poster di Roger Federer. Poi, nella vita di Lorenzo Seminatore, qualcosa è cambiato. Le giornate che iniziano a diventare pesanti da affrontare, l’insicurezza, l’ansia che lo opprimeva. Fino al rifiuto del cibo. Il peso che diventa un’ossessione, una guerra quotidiana durata sei anni finché, lo scorso 3 febbraio, Lorenzo è morto di anoressia a 20 anni. Hanno scelto di raccontare la storia del figlio per “scuotere la coscienza delle istituzioni. Ci sono altre famiglie che stanno vivendo il nostro calvario e che si sentono sole in questa battaglia”. Per aiutarlo, hanno provato di tutto: psicologi, ricoveri in ospedale, comunità. “La tragedia di nostro figlio dimostra che di anoressia si può morire – raccontano – Bisogna affrontare il fenomeno, a iniziare dal punto di vista legislativo. Le strutture pubbliche non sono abbastanza e non c’è un sistema che sappia dirti a chi rivolgerti. È necessario mettere mano alla normativa, perché c’è un vuoto”.
Lorenzo, il più grande di tre fratelli, fino a 14 anni è sempre stato un ragazzo senza problemi di alcun genere: molti amici e la passione per lo sport. Studiava e giocava a tennis in un circolo di Moncalieri, alle porte di Torino. Ma quando ha smesso di mangiare, per i genitori è suonato “un campanello d’allarme”. Lo vedevano dimagrire a vista d’occhio: “Era evidente che non stesse bene”. Tra specialisti, visite e centri di sostegno, Lorenzo ha ottenuto la maturità scientifica e si è iscritto all’università. Filosofia prima, Scienze della Comunicazione dopo. “Dopo un periodo in un centro della Val D’Aosta sembrava rinato”, raccontano. Usciva di nuovo con gli amici. Cercava risposte nella musica, nel rap. Eppure, dopo poche settimane, è ricaduto nel baratro. Una storia che si è ripetuta diverse volte: “Negli ospedali – spiegano i genitori – si limitano a parcheggiarti in un reparto e a somministrare flebo per integrare il potassio. Poi ti rimandano a casa, sino al prossimo ricovero”. Una situazione che si è complicata ancora di più con la maggiore età: “A quel punto è diventato libero di decidere. Quando veniva ricoverato, firmava per essere dimesso. E così via”, spiegano i genitori.
Ha aperto un canale YouTube, ha scritto dei versi per sfogare la sua rabbia, le sue paure. Un mese fa, su un foglio bianco, ha elencato i suoi desideri. “Essere più fiero di me stesso”, “Viaggiare”, alcuni dei punti. “Avevamo interpretato quel gesto come un segno di speranza. Pensavamo che dimostrasse la sua voglia di lottare ancora”, ricordano i genitori. Ma un mese dopo è morto: uno dei suoi fratelli lo ha trovato a letto, immobile. Adesso, i genitori hanno scelto di raccontare la loro storia per denunciare le carenze del sistema di assistenza: “Le istituzioni devono fare qualcosa. Pensare a progetti di prevenzione nelle scuole, percorsi di sostegno alle famiglie e investimenti. Non tutti possono permettersi centri privati. Nessuno, in queste situazioni, dev’essere lasciato solo”.