di Gianluigi Perrone
“Il Coronavirus non esiste”, questo è quanto ho sentito dire poco più di due settimane fa dal manager di una grossa compagnia di Pechino, padre di famiglia, che minimizzava per paura di poter perdere clienti. “Pechino è la città più sicura al mondo perché qui c’è il governo che stavolta è disposto a uccidere pur di non far diffondere il virus. È una storia diversa rispetto al 2003 […] In Cina si sta meglio che in Italia. Puoi fare tutto a parte far festa”. Invece dopo pochi giorni hanno dovuto chiudere a tempo indeterminato, ma la sua opinione rimane la medesima. La cultura cinese ha un punto cardine, la 面子 (mienzi), la faccia o reputazione che deve essere mantenuta ad ogni costo anche davanti all’evidenza di difetto. Molti imprenditori cinesi la vedono così. Il Covid-19 interessa una percentuale talmente piccola della popolazione da essere irrilevante clinicamente ma le conseguenze sull’economia di ogni singolo cittadino possono essere devastanti, soprattutto per una popolazione che ha fatto del consumismo una dottrina sacra. “A che vuoi più bene? Alla mamma o ai soldi? “. Ironizzo con il collega.
Il problema c’è ed è più grave di quanto si creda. In Italia si lamenta il calo di privilegi turistici e dell’ingiustificato boicottaggio di ristoranti e negozi cinesi, ma la Cina affronta un problema ben più grave. In un paese grande quanto un continente ogni attività che implichi congregazione è stata soppressa. Dai ristoranti ai cinema. Dai centri commerciali agli uffici. Come gestire l’inevitabile tracollo economico è ancora una incognita, ma le aziende sono ansiose di correre ai ripari.
Se l’economia ne esce a pezzi, tuttavia il governo centrale risulta rafforzato.
Le misure restrittive sono ingenti. Wuhan è stata trasformata in un Lazzaretto, ma la stretta del controllo governativo avvolge tutto il paese. Non è vietato uscire di casa ma alcune palazzine hanno adottato misure radicali, sbarrando i cancelli e imponendo di registrare i propri spostamenti a chiunque decida di uscire di casa, controllando a tutti la temperatura. Anche gli acquisti sono sotto l’occhio vigile delle forze dell’ordine. Racconta Stefania, graphic designer romagnola a Pechino: “Mi hanno chiesto i dati della carta d’identità online quando ho ordinato un antibiotico. Mi ha chiamato un medico per sapere perché mi serviva l’antibiotico poi amen. Ho letto che ti segnalano in caso di acquisto di antipiretici o aspirine”.
“Ho mandato mio marito a fare scorta di medicine ma ci abbiamo rinunciato“, racconta Eva, insegnante di arte friulana residente a Pechino, “per comprare le medicine è necessario fare segnalazione alla polizia. Ho paura che un giorno mio marito non rientri in casa solo perché dà un colpo di tosse. Pare che offrano anche ricompense in denaro a chi sia in grado di segnalare un caso di infezione”. Una forma di delazione che fa pensare a tempi più bui ma perfettamente in linea con le regole correnti. La legge infatti prevede 7 anni di carcere per chi è malato senza avvertire le autorità e la pena di morte per chi tace di avere i sintomi ormai noti globalmente.
Eva sta lottando da settimane per portare in Italia suo figlio Conan, di soli 3 mesi, cittadino italiano ma, per ora, anche cinese per via del padre. La legge cinese non prevede due nazionalità e, prima di una rinuncia di cittadinanza cinese, è richiesto un permesso speciale per lasciare il paese. Un permesso che in tempi di epidemia fa molta fatica ad arrivare, di fatto bloccando molti giovanissimi cittadini italiani in Cina solo per il loro sangue. Come Eva e Conan, molti altri expat genitori di figli mezzosangue sono in questa condizione gravissima, completamente ignorata dai media. Alberto, di base a Qingdao, con moglie cinese e due figli italianissimi “ormai abbiamo perso la voglia di lottare per avere il permesso per i bambini. Lo stress del viaggio e mia moglie ha paura che i bambini vengano discriminati”. Non ha tutti i torti.
Tuttavia, se in Italia si cerca di sensibilizzare contro il “razzismo ipocondriaco irrazionale” verso i sino-italiani, come se la cavano i cinesi con i loro expat? A quanto pare male. “Mi hanno comunicato che il mio stipendio di gennaio, quando ho lavorato regolarmente, mi verrà dato quando riaprono, se riaprono”, lamenta Marco, della provincia di Bologna, dj fisso per un noto disco club della capitale cinese. Le compagnie rimandano l’apertura di settimana in settimana, sperando che il divieto di riunirsi in gruppo venga eliminato. Daniele, ristoratore campano a Pechino, non si perde d’animo: “Abbiamo forzato l’apertura dei ristoranti, ma sono sicuro che avrà i suoi frutti”.
Non va meglio per alcuni di coloro che avevano lasciato la Cina per sicurezza. Vanessa è un medico portoghese ed è sposata con Sebastian, ingegnere tedesco per il branch cinese di un noto brand di automobili: “Sono tornata per non lasciarlo solo, perché lo hanno richiamato al lavoro e ci hanno messo subito in quarantena – racconta Vanessa – Non è tanto pericoloso per il virus. Sono le condizioni mentali che stanno cambiando. Non sanno neanche come usare le maschere e i termometri che usano sono rotti“. Stefania conferma: “Molti termometri non funzionano perché fa troppo freddo fuori, quindi quelli che ti controllano all’aperto, al parco, nelle fermate della metro con i controlli all’esterno funzionano tutti male. Alcuni danno 30/32 oppure non leggono proprio. Apprezzo lo sforzo e la velocità di reazione, potrebbe essere peggio. Oggi però per esempio – continua – sono andata da McDonald’s e mi han preso temperatura e nome. Ma a che serve? Tra l’altro gli ho dato il nome cinese. Niente numeri di passaporto, di telefono, nulla”. Come si suol dire in Cina: 差不多 (chabuduó), che vorrebbe dire “più o meno” ma per tradurre correttamente bisognerebbe citare il famigerato metodo di lavoro di Pannofino della serie Boris.
Quindi è vero che in molti tra le autorità stanno gestendo la situazione più come un obbligo formale che come un’emergenza sanitaria. Naturalmente non ha senso chiedere agli impiegati stranieri di rientrare a lavoro se poi sono costretti a lavorare da casa in quarantena, cosa che potrebbero fare anche dal proprio paese. Anzi li si espone coscientemente al pericolo di contagio per riprendere un lavoro che potrebbero fare comunque. “Il problema è che in Cina non c’è l’abitudine di lavorare da remoto. Hanno bisogno di vederti seduto in ufficio anche se non hai nulla da fare e stai tutto il giorno a giocare ai videogiochi. Non concepiscono il lavoro da casa”, suggerisce Eugenio, architetto di Guangzhou. La cultura cinese sta pagando gravemente il fio dell’insicurezza e della diffidenza che caratteristica il comportamento aziendale e sociale della maggior parte degli imprenditori. Una costante ambiguità che viene equilibrata solo con la prepotenza, quando forse stavolta sarebbe necessaria quella flessibilità che è alla base dell’antica cultura cinese. “Sii acqua”, recitava il detto reso detto da Bruce Lee.
Se l’emergenza verrà gestita come una caccia all’uomo con il solo intento di eliminare gli infetti e ripristinare l’economia il più presto possibile, la Cina si ritroverà presto con un problema ancora più grande. La maschera sta cadendo e le porte potrebbero chiudersi per molto tempo.
* CEO di Polyhedron VR Studio
www.polyhedronvrstudio.com