Di fronte ai rischi naturali, abbiamo sottovalutato a lungo le interazioni sociali, esaltando prima le misure dell’ingegneria “hard” in grado di mitigarne gli effetti, per poi virare sulle tecnologie “soft” in grado di supportare le politiche di protezione civile. Solo di recente si sta facendo uno sforzo per capire la percezione delle persone, delle comunità e delle istituzioni rispetto a questi rischi e, soprattutto, la loro risposta in tema di prevenzione, emergenza, resistenza, resilienza, ricostruzione. Nel contesto dei conflitti, poi, tutto si complica e si enfatizza. E l’impatto di tempeste, alluvioni, terremoti si manifesta nel modo più evidente e drammatico proprio nelle aree di crisi legate a guerre e guerriglie di lungo periodo.
Invero, il concetto di rischio si pone all’incrocio tra scienze sociali e scienze della natura. In forma quantitativa, il rischio si misura con la probabilità che un evento abbia conseguenze negative, calcolata moltiplicando tre fattori: il grado di pericolo, l’esposizione della popolazione in questione e la sua vulnerabilità. Il pericolo è definito da quando, dove e in che misura un evento potenzialmente distruttivo – terremoto, alluvione, uragano – si può verificare. L’esposizione è caratterizzata dalla probabilità che una persona o una comunità si trovino nello stesso posto contemporaneamente al verificarsi del pericolo. La vulnerabilità descrive le condizioni che aumentano la probabilità che una persona o una comunità subisca gli impatti di un pericolo. Lo sradicamento dovuto a una guerra aggrava ogni aspetto del rischio.
L’esodo nei campi profughi aumenta la frequenza e la gravità dei pericoli, poiché alte concentrazioni di rifugiati possono portare al deterioramento ambientale nelle aree dove le risorse naturali non bastano a soddisfare la domanda. Abbattere gli alberi, costruire in fretta e furia rifugi senza alcuna pianificazione, smaltire in modo inadeguato le acque reflue aggravano l’erosione, la desertificazione e l’inondabilità e favoriscono il diffondersi delle malattie.
Nella stagione dei monsoni del 2018, le pendici disboscate hanno prodotto centinaia di frane nei campi profughi che accolgono i rifugiati Rohingya a Cox’s Bazar (Panowa) in Bangladesh; nello stesso tempo, la compattazione del terreno ha ingrossato il ruscellamento delle piogge, intensificando le inondazioni dei campi.
In Africa, gli esempi sono numerosi. Nel 2011, la siccità aveva decimato il bestiame e distrutto le colture somale, provocando più di 250mila vittime, armando le incursioni delle bande nei villaggi alla disperata ricerca di cibo. Almeno 150mila persone fuggirono in Kenya, solo per essere ricollocate in aree soggette alle inondazioni improvvise che colpirono i campi profughi mietendo altre vittime. E nello stesso Kenya, le inondazioni del 2006 avevano prodotto 100mila profughi, rifugiatisi nei campi di Dadaab, dove cinque campi profughi gestiti da Unhcr ospitavano ancora nel 2015 oltre 300mila persone.
La vicenda dei rifugiati siriani, per numero e durata, rappresenta il caso più recente di crisi umanitaria e, nello stesso tempo, ambientale. Dall’inizio della guerra siriana nel 2011, il Libano ha assorbito tra 950mila e un milione e mezzo di rifugiati, costretto ad affrontare un enorme, repentino incremento demografico, dell’ordine del 40 per cento. Oggi, un individuo su quattro che vive in Libano è un rifugiato.
Il Libano, noto per offrire rifugio ai grandi manager in disgrazia, accoglie oggi una moltitudine di profughi di guerra. All’inizio, i rifugiati siriani si erano stabiliti nelle aree urbane, affittando case e appartamenti. Quando la domanda di alloggi superò l’offerta, i rifugiati iniziarono ad accontentarsi di garage e fienili. Mentre la guerra infuriava e lo sfollamento continuava, i rifugiati crearono campi informali, case di fortuna per centinaia di famiglie, fragili rifugi tirati su con qualsiasi materiale disponibile.
Uno studio specifico condotto nei campi profughi del Libano ha dimostrato come il profilo del rischio di frana sia radicalmente mutato dall’inizio della crisi siriana, con un aumento stimato dell’ordine del 75%, concentrato soprattutto nelle montagne del Libano centrale e nord-orientale, le più soggette alle colate detritiche. I rifugiati siriani che si sono stabiliti in questi campi informali sono soggetti a un rischio dieci volte maggiore rispetto alle popolazioni urbane, per via dei rifugi di scarsa qualità costruttiva e funzionale, allocati spesso in posti sbagliati.
E la vulnerabilità dei rifugiati è più evidente quando sono ospitati in rifugi temporanei, spesso tende improvvisate, generalmente realizzate con teli di plastica, legno e rottami metallici, che offrono una minima protezione dai pericoli naturali: nel gennaio 2015, una tempesta di vento fece crollare le tende di tela cerata nel campo profughi di Za’atari in Giordania, lasciando decine di famiglie siriane senza tetto.
Sebbene le analisi di contesto siano ancora rudimentali e approssimative, la tendenza costante – verificata tanto nei campi profughi mediterranei del Libano quanto in quelli africani e asiatici – indica che gli sfollamenti forzati aumentano notevolmente la vulnerabilità della popolazione colpita. Vanno perciò individuate soluzioni efficaci ed economiche per ridurre la esposizione e la vulnerabilità. E, tanto per iniziare, si dovrebbero evitare reinsediamenti spontanei in campi rurali e zone marginali. La riduzione della vulnerabilità dovrebbe poi rientrare tra gli obiettivi prioritari delle agenzie internazionali che aiutano i rifugiati.