Come un’equazione: più è becero il pensiero, più dev’essere impellente la necessità di incollarlo su un qualche commento web. Non si spiega altrimenti. Così, al di là delle statistiche e dei fondi delle classifiche, il declino di questo Paese si può toccare – viscido – su Internet.
C’è un ragazzo arrestato per le sue idee, pare sotto tortura. E tanto dovrebbe bastare a farci indignare tutti. Metteteci che si tratta di uno studente di una nostra università; metteteci anche che il luogo dove è rinchiuso è lo stesso in cui è stato ammazzato e oltraggiato un altro nostro ragazzo.
Chi non si immedesimerebbe con i suoi amici e colleghi che martedì sono scesi in piazza a Bologna? Chi non sentirebbe nel petto un po’ di pena per la sorte ammanettata di Patrick Zaki? A quanto pare nessuno.
Basta leggere i commenti sparpagliati sul web, ma ricorrenti: c’è il qualunquismo di chi dice che semmai dovremmo protestare per le tasse – ma che c’entra? Una protesta esclude l’altra? C’è chi dice che è inutile manifestare – forse, ma sempre meglio che restare alla tastiera; c’è chi se la prende col carrozzone della sinistra – ché il tifo politico proprio non riusciamo a metterlo da parte. Poi c’è chi osa di più, sfidando i manifestanti a salire su un aereo e liberarlo di persona o sarcastico l’Italia a dichiarare guerra; chi ci vede un complotto internazionale contro la nostra economia; chi ne approfitta per criticare le sardine.
Non c’è nessuno, ed è triste, a spendere una parola per questo ragazzo torturato. Nessuno con il coraggio di pronunciare il nome di Patrick George Zaki, 27 anni. Nessuno. Come se non fosse più una persona ma un argomento, come se il suo dolore e la sua paura fossero la finzione di un film, una storia lontana.
Ma, signori, qui c’è un ragazzo di mezzo, non un martire; almeno finché noi non lo abbandoneremo. Stavolta siamo ancora in tempo, stavolta andrà tutto bene. A prescindere da chi commenta.