In Germania, a est di Berlino, si apre una foresta il cui destino in queste settimane sta mettendo in crisi sia il governo tedesco sia i piani “espansionistici” della Tesla di Elon Musk. Da un lato infatti c’è la salvaguardia ambientale, dall’altro quella del “green new deal” tedesco: che messe così, tutto sommato, dovrebbero essere la stessa faccia di una medaglia, ma non stavolta.
Perché la prima Gigafactory europea – il quarto stabilimento Tesla al mondo, dopo i due statunitensi e l’ultimo di Shanghai – dovrebbe sorgere a Gruenheide, a pochi chilometri dalla capitale tedesca, ma soprattutto con un piede (92 ettari) nella foresta: questa fa parte dei circa 300 ettari totali di area che il costruttore di Palo Alto ha acquistato nei mesi scorsi dallo Stato del Brandeburgo, per 41 milioni di euro. E il disboscamento dei 92 ettari di foresta rientrava nell’accordo, tanto che Musk aveva già messo “i suoi” all’opera, portando via in pochi giorni un’area pari a circa 150 campi da calcio.
Se non fosse che a mettere i bastoni fra le ruote sono intervenuti gli attivisti del gruppo ambientalista Lega Verde di Brandeburgo (Gruene Liga Brandendburg) che, accusando il costruttore di causare potenziali danni ambientali alla fauna locale e di un eccessivo consumo delle risorse idriche, sono riusciti a fermare temporaneamente gli abbattimenti degli alberi.
L’alto tribunale di Berlino-Brandeburgo, infatti, ha deciso di accogliere il ricorso della Lega Verde alla sentenza di una corte minore che aveva rigettato la richiesta di sospensione dei lavori sulla foresta mesi fa. A questo punto la sentenza definitiva sulla vicenda dovrebbe arrivare già entro i prossimi giorni.
Nel caso in cui il tribunale dovesse dare ragione a Musk, riprenderebbero quindi i lavori al primo stabilimento Tesla d’Europa, operativo – nei piani del ceo – già da metà del prossimo anno: un sito che potrebbe produrre fino a 500 mila unità (a zero emissioni) all’anno, assicurando 12 mila posti di lavoro. Un’occasione cui i cristiano-democratici e i liberali non accettano di rinunciare, accusando gli oppositori al piano di creare al Paese un danno d’immagine per futuri investimenti. Verrebbe proprio da dire, l’insostenibile costo della sostenibilità.