“Con la partecipazione straordinaria di Flavio Bucci” è scritto nel cast de Il Grande Passo di Antonio Padovan, in uscita il 2 aprile. E la morte improvvisa di Flavio, a soli 72 anni, rende il suo ruolo cameo ancora più straordinario. Un’icona del cinema italiano, dal Marchese del Grillo di Mario Monicelli al Divo di Paolo Sorrentino.
Ne Il Grande Passo è il padre che ha insegnato ai figli a inseguire i propri sogni con caparbietà. Basta crederci perché si realizzino. Da quando a sei anni, in una notte d’estate del 1969, il bambino Dario, suo figlio, aveva visto in diretta le immagini del primo sbarco dell’uomo sulla Luna, non aveva mai smesso di volerci andare. ‘Luna Storta’, così lo chiamano in paese, ha dedicato tutta la sua vita a quel sogno impossibile, perché i sogni, come gli disse quella notte suo padre, fanno la differenza tra gli esseri umani e gli animali. Poi il padre decise di scomparire senza dar più notizie di sé.
Il fratello Mario gestisce invece con la madre una sonnolenta ferramenta di quartiere a Roma, fino al giorno in cui la sua svogliatissima esistenza viene sconvolta dallo squillo del telefono. Suo fratello Dario ha causato un incendio ed è finito in prigione. La madre di Dario è morta da anni, così Mario si ritrova ad essere l’unico parente che può occuparsi di quel fratello che ha visto una sola volta in vita sua. Mario esita, riflette, dubita, poi decide di partire verso il nord.
I due fratelli (Giuseppe Battiston e Stefano Fresi, bravissimi) tanto simili fisicamente quanto differenti caratterialmente, si ritroveranno soli in una cascina di campagna dove Dario ha allestito vicino al pollaio un improvvisato centro operativo spaziale. A ricordare di quando 50 anni fa, in una calda notte di luglio, gli esseri umani si sono stretti tutti assieme, forse per l’ultima volta, trattenendo il fiato di fronte alle immagini di uno di loro che metteva piede sulla Luna.
Il 1969 era un mondo in cui eravamo ancora ammalati di speranza, di sogni e di “nuove frontiere”. “Un mondo e un tempo che non riusciamo più nemmeno a immaginare, noi che viviamo ammalati di paure, di recessione, che abbiamo smesso da anni di coltivare l’idea di progresso. La conquista della Luna è stata un’impresa straordinaria, di cui abbiamo perso coscienza, che conteneva l’illusione di cambiare la vita dell’umanità: era il nuovo viaggio di Colombo. E i cittadini del mondo, tornati bambini, avevano cominciato a sognare”. Così scrive Mario Calabresi.
Raccontando questa storia Padovan ha voluto rendere omaggio a due mondi del cinema che ama e che vivono dentro di lui, impastati l’uno con l’altro. “Da un lato quello americano, un po’ infantile e sentimentalista, con cui sono cresciuto da bambino, il cinema di sognatori come Steven Spielberg, dell’ingenuità vista come valore, dell’inno alla meraviglia, delle inquadrature a stringere su primi piani di bambini che fissano qualcosa di fantastico, e noi con loro. Come ammirare la Luna. Dall’altro il cinema della mia terra, quello silenzioso e sincero, fatto di spazi dilatati e di sentimenti delicati e autentici, traboccante di affetto per la normalità. La campagna con la nebbia, e i suoi abitanti”, spiega Padovan.
Flavio nel film è un uomo piegato dalla vita, i suoi sogni nel cassetto sono rimasti lì, arrugginiti. Lo sguardo è sofferente, quasi non si regge in piedi, non riesce neanche ad abbracciare i figli che da lontano sono venuti a trovarlo per chiedergli spiegazioni. Lui non riesce a darle, accenna un sorriso, cerca il loro perdono. La moglie, la terza nel film, lo trascina via. Lui volta le spalle, è la sua ultima inquadratura. Di struggente tenerezza. Profetica più che mai. Un film assolutamente da vedere.