La ricamatrice di Winchester - 2/3
Abbiamo una sorta di nobile idiosincrasia rispetto ai romanzi di Tracy Chevalier. Ne riconosciamo l’affabulante struttura di ragionato romanzo storico, ne scorgiamo il tratteggio gentile e pulito attorno alle figure femminili protagoniste, ma quando si tratta di percepire un’urgenza creativa che vada oltre gli obblighi contrattuali facciamo un po’ fatica. È un nostro limite, per carità, ma La ricamatrice di Winchester (Neri Pozza), ambientato nei primi anni trenta in una cittadina statunitense non ci ha colpito, prima di tutto, nell’immaginazione di un mondo, e non ci ha lasciato una spina conficcata nel’album dei ricordi dopo aver chiuso il libro e appoggiato sul comodino. Quello della trentottenne Violet, vedova di guerra che si allontana dall’ingombrante madre ottenendo un introito mensile nel fare la dattilografa, e poi si intrufola tra le ricamatrici della cattedrale del paese per imparare a cucire preziosi cuscini per gli inginocchiatoi dei fedeli, è un ritratto di donna d’altri tempi incasellato in una femminilità contratta e servile, che tra i colorati e vezzosi garbugli del ricamo e quelle ostinate ripetizioni illuminanti (“Violet capì subito” o il “Violet annuì” ripetuto almeno cento volte) sembra come riprodurre l’effetto di un pedale del freno pigiato a tratti. Non aiutano la scelta di un incipit titubante in medias res e la traiettoria dimessa dell’apologo incarnata tra l’apparizione del protettivo sessantenne campanaro, l’ennesima soluzione priva di pathos, e la summa del pensiero di fondo, vagamente auto castrante, dell’intero romanzo: il valore emancipatore di un hobby di routine che si trasforma in arte liberatrice. Per fan molto appassionate del mezzo punto. Voto: 6 – –