Li chiamano i ceasefire babies: sono i bambini nati negli anni ’70 in Irlanda del Nord, cresciuti troppo in fretta e passati da un trauma all’altro. Una generazione di ragazzini bruciata prima dalla guerra civile nell’Ulster e poi dai traumi post-conflitto. Il ‘Good Friday agreement’, l’accordo del Venerdì Santo che ha posto fine a trent’anni di sangue, terrore e violenza nella parte di Irlanda sotto il controllo di Londra, ha rappresentato un vero e proprio spartiacque per quella generazione, soprattutto per i maschi. Dall’ardore della lotta, instillata dentro ogni singola famiglia della lower class nordirlandese, cattolica e protestante, al vuoto del regime di pace. Dall’impegno civile al disimpegno militare, la base del crollo di molti.
Se c’è una cosa positiva che il conflitto in Irlanda del Nord, tra il 1969 e il 1998, ha tenuto lontano è il peso del ricordo e della lotta di classe. Venuti meno quei cardini di condivisione, sono iniziate le vere conseguenze del post-cessate il fuoco. Si calcola che nella guerra trentennale a Belfast e nelle sei contee che compongono la parte più povera e bistrattata del Regno Unito, il fuoco abbia mietuto più di 3700 morti, oltre alle migliaia di feriti. Paradossalmente i venti anni di pace successivi, quelli tra il 1998 appunto e il 2018, in Irlanda del Nord hanno prodotto quasi 4mila suicidi.
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Stando ad uno studio della Queen’s University di Belfast, in questo ventennio il tasso è raddoppiato, passando dall’8,5 a quasi il 17%, mentre quello in Inghilterra è rimasto tra l’8 e il 9%: “La reazione è stata quasi immediata. La fine del conflitto ha provocato un trauma ancora maggiore dell’impatto di un odio settario andato avanti per decenni. La mia famiglia è una delle tante a Belfast e nel resto del Paese che ha sofferto la perdita di un proprio caro, mio fratello, eppure il vero contraccolpo è arrivato dopo”. Mark Thompson, 54 anni, ha vissuto sia i troubles (guai) che il processo di transito tra la violenza e una pace solo apparente. Dalla fine degli anni ’90 è entrato nell’associazione Relatives for Justice, nata nel 1991 come iniziativa di supporto per le famiglie colpite da violenze e lutti. Oggi ne è il direttore e da allora Relatives for Justice è cresciuta, dando lavoro ad una cinquantina di persone in tutta l’Irlanda del Nord, di cui 16 full-time.
“Al momento stiamo gestendo circa 350 casi, con varia intensità a seconda degli eventi – racconta Thompson dallo studio in Glen road a East Belfast, a due passi da Falls road e dal cimitero di Milltown dove, tra gli altri, sono sepolti Bobby Sands e gli eroi della Blanket protest nel carcere di Long Kesh, a Lisburn -. Tenga conto che ce ne sono almeno un decimo la cui gestione è iniziata già nel 1991″. Thompson spiega che il team “è composto soprattutto da avvocati il cui compito è chiedere conto alle istituzioni e alla procura generale e a quelle territoriali dei tanti crimini ancora senza colpevoli e, in alcuni casi, addirittura senza indagati. Nel tempo, tuttavia, abbiamo iniziato a gestire tutte le situazioni legate alle tragedie che hanno colpito i vari nuclei familiari”. Ma nella squadra di Relatives for Justice ci sono anche “diversi psicologi, terapisti, i casi di depressione e di abbandono non si contano e sono esplosi soprattutto dopo gli accordi del 1998. Seguiamo e aiutiamo tante famiglie con a carico ragazzi tossicodipendenti. Una larga fetta di popolazione delle classi più povere della parte repubblicana del Paese – precisa Thompson – è scivolata nelle dipendenze, con droga e alcol in primis, piaghe difficili da debellare. Chi non si uccide con le sostanze si toglie la vita. Lo studio della Queen’s University lo conferma, ma credo che le cifre sul tasso di suicidi tra la popolazione repubblicana e cattolica siano per difetto”. Il punto è come contrastare questa deriva. “Innanzitutto esserci sempre per aiutare i più deboli e le famiglie a pezzi e farlo anche attraverso l’educazione e lo stimolo all’istruzione, spingendo le famiglie a mandare i figli a scuola, limitando il tasso di alfabetizzazione, il più basso del Regno Unito”.
Certi traumi non si rimarginano e l’unica soluzione possibile è conviverci, limitando, quanto possibile, i danni e tenendo il più elevata possibile la qualità della vita. Irene Connolly i troubles li ha vissuti dall’età di 3 anni e mezzo e i postumi di quella tragedia familiare probabilmente se li porterà nella tomba. La sua vita ha subìto uno sconvolgimento la sera del 9 agosto del 1971, quando il 1° Battaglione del Reggimento dei paracadutisti dell’esercito britannico ha aperto il fuoco contro sua madre, 44 anni. Joan Connolly, la sera del coprifuoco improvviso decretato a Ballymurphy dopo il blitz dalle forze militari per stanare guerriglieri del Pira (Provisional Ira) nel quartiere alla periferia est di Belfast, stava andando a recuperare due dei nove figli, le figlie maggiori, che erano da un’amica. “Quei mercenari hanno detto che mia madre era una militante dell’Ira, aveva una pistola e si preparava a sparare – ricorda ancora con la voce rotta dall’emozione Irene -. Le hanno sparato quattro colpi, il primo al volto, poi l’hanno giustiziata davanti a casa. Da quel momento ogni ricordo di mia madre si è cancellato. Per diciassette anni con i miei fratelli e sorelle non ho più parlato di lei, per me non era esistita, non l’avevo mai vista. Fino a quando, una volta nata la mia prima figlia, li ho convocati tutti per dire loro cosa mi era successo, ossia che non mi ricordavo di lei. Nessuno di loro poteva crederci. Oggi – spiega Irene – soffro di violenti attacchi di depressione, sono in cura e ho tentato più volte il suicidio. Mio padre, dopo la morte di mamma, quando ha saputo della strage di Bloody Sunday, sei mesi dopo, è collassato psicologicamente. È stato rinchiuso in un manicomio e poi è morto di cancro nel 1982. Una cosa la ricorderò sempre e questo fa sì che io non li potrò mai perdonare. Nelle settimane successive alla strage, i soldati inglesi di guardia nel quartiere, venivano apposta sotto le nostre finestre e cantavano ‘Where’s your mama gone? Far away…’ (canzone dei Middle of the road, uscita proprio nel 1971, giocando sulle parole, ‘che fine ha fatto tua mamma? Se n’è andata lontano…’ ndr.). Sentivamo le loro risate, seduti a tavola, sperando se ne andassero. E mamma non c’era più”.
La musica non ha salvato Stephen Travers, bassista dei Miami Showband, negli anni ’70 il gruppo più famoso d’Irlanda, anzi il contrario. Lui e il sassofonista della band, Des McAlea, sopravvissero ad un’imboscata dei paramilitari unionisti dell’Uvf, Ulster Volunteer Force (in questi giorni è stata confermata la partecipazione all’attentato dell’MI5, il servizio segreto inglese) vicino Buskhill, contea di Down. Gli altri tre membri del gruppo furono assassinati sul posto: “Tralascio l’orrore di quella sera, da allora la mia vita, come può ben capire, è diventata un incubo – racconta Travers a margine della sua partecipazione alla marcia della Bloody Sunday a Derry lo scorso 2 febbraio -. Oltre ad aver perso tre amici e grandi musicisti, ad aver rischiato la morte e avere addosso le ferite perenni, da allora non mi hanno praticamente quasi più offerto contratti e serate. Nessuno voleva più avere a che fare con me, ricordavo troppo e a tutti il peso di quel massacro”.