I governi del Medio Oriente e dell’Africa del Nord hanno mostrato una spietata determinazione nello stroncare con forza brutale le proteste e nel calpestare i diritti di centinaia di migliaia di persone scese in strada per chiedere giustizia sociale e riforme politiche. È questa la principale conclusione dell’analisi di Amnesty International sulla situazione dei diritti umani nelle due regioni nel 2019 che ovviamente dedica specifici capitoli ai conflitti in corso in Siria, Yemen e Libia.
Le autorità del Medio Oriente e dell’Africa del Nord hanno impiegato una serie di tattiche per reprimere l’ondata di proteste, arrestando arbitrariamente migliaia di manifestanti e in alcuni casi ricorrendo alla forza eccessiva e letale.
In Iraq, dove le vittime sono state quasi 500, i manifestanti hanno mostrato una formidabile resilienza sfidando proiettili veri, cecchini e gas lacrimogeni per uso militare sparati da corta distanza e che, in questo modo, hanno causato gravissime ferite.
Per quanto riguarda l’Iran, resoconti credibili indicano che dal 15 al 18 novembre, per stroncare le proteste nate dall’aumento del prezzo della benzina, le forze di sicurezza hanno ucciso oltre 300 manifestanti e ne hanno feriti migliaia. Migliaia sono state anche le persone arrestate, molte delle quali sottoposte a sparizione forzata e a tortura.
A settembre le donne palestinesi residenti in Israele e nei Territori palestinesi occupati sono scese in strada per protestare contro la violenza di genere e l’occupazione militare israeliana. Le forze israeliane hanno ucciso decine di palestinesi durante manifestazioni nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania.
In Algeria, dove proteste di massa hanno favorito la caduta del presidente Abdelaziz Bouteflika dopo 20 anni di potere, le autorità hanno cercato di stroncare le proteste con arresti arbitrari e procedimenti giudiziari di massa nei confronti di manifestanti pacifici.
Le grandi proteste esplose in Libano a ottobre, che hanno portato alle dimissioni del governo e iniziate in modo ampiamente pacifico, sono state in diverse occasioni affrontate col ricorso alla forza illegale ed eccessiva da parte delle forze di sicurezza, che non sono intervenute in modo efficace per proteggere i manifestanti pacifici da attacchi dei simpatizzanti di gruppi politici rivali.
In Egitto l’inatteso scoppio di proteste, a settembre, ha colto di sorpresa le autorità che hanno poi reagito operando oltre 4000 arresti.
Oltre a reprimere le manifestazioni pacifiche nelle strade, i governi del Medio Oriente e dell’Africa del Nord hanno continuato a prendere di mira coloro che esercitavano il diritto alla libertà di espressione sulla Rete. Giornalisti, blogger e attivisti che hanno pubblicato commenti o video contenenti critiche nei confronti delle autorità hanno subito arresti, interrogatori e processi. Amnesty International ha registrato prigionieri di coscienza in 12 paesi e 136 arresti nei confronti di persone che avevano espresso pacificamente le loro opinioni online.
Le autorità hanno anche impedito l’accesso alla Rete o la condivisione di informazioni online. Durante le proteste in Iran, Internet è stato pressoché bloccato per evitare la condivisione di fotografie e video riguardanti uccisioni e ferimenti di manifestanti. In Egitto le autorità sono intervenute sulle app di messaggistica per impedire l’ulteriore propagazione delle proteste. Sempre in Egitto, così come in Palestina, le autorità hanno censurato siti e portali di notizie. In Iran app quali Facebook, Telegram, Twitter e YouTube sono rimaste bloccate.
Alcuni governi hanno usato tecniche ancora più sofisticate di sorveglianza online per prendere di mira i difensori dei diritti umani. Dalle ricerche di Amnesty International è emerso che due difensori dei diritti umani del Marocco sono stati spiati grazie a un software sviluppato dall’azienda israeliana NSO Group, che già in precedenza era stato usato contro attivisti dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti e anche nei confronti di un impiegato di Amnesty International.
Complessivamente, nel 2019 Amnesty International ha riscontrato la detenzione di 367 difensori dei diritti umani (240 detenuti arbitrariamente solo in Iran) e procedimenti giudiziari nei confronti di 118. Il numero effettivo potrebbe essere più elevato.
Nonostante tutto questo, nel 2019 vi sono stati piccoli ma a loro modo storici passi avanti verso l’accertamento delle responsabilità per le violazioni dei diritti umani del passato.
La dichiarazione, da parte del Tribunale penale internazionale, che nei Territori palestinesi occupati sono stati commessi crimini di guerra e l’annuncio dell’avvio di un’indagine non appena la giurisdizione del Tribunale sarà confermata rappresentano un’opportunità cruciale per porre fine a decenni d’impunità. Secondo il Tribunale, questa indagine potrebbe riguardare anche le uccisioni di manifestanti nella Striscia di Gaza ad opera delle forze israeliane.
Analogamente, in Tunisia la Commissione per la verità e la giustizia ha pubblicato il suo rapporto definitivo e sono stati avviati 78 procedimenti giudiziari riguardanti le violazioni dei diritti umani commesse in passato dalle forze di sicurezza.
I limitati progressi relativi ai diritti delle donne, ottenuti dopo anni di campagne da parte dei movimenti femminili locali, sono stati oscurati dalla continua repressione ai danni delle difensore dei diritti umani, soprattutto in Iran e in Arabia Saudita, e dalla complessiva mancata eliminazione dell’ampia discriminazione contro le donne. L’Arabia Saudita ha introdotto la riforma, da tempo sollecitata, del sistema del guardiano maschile, ma cinque difensore dei diritti umani hanno continuato a rimanere in carcere per tutto il 2019.
Alcuni stati del Golfo hanno annunciato riforme per migliorare la protezione dei diritti dei lavoratori migranti. Tra questi il Qatar, che ha promesso l’abolizione del sistema dello sponsor (kafala) e di rendere più semplice ai migranti l’accesso alla giustizia. Anche Giordania ed Emirati Arabi Uniti hanno annunciato riforme in quella direzione. Tuttavia, i lavoratori migranti hanno continuato a subire sfruttamento e violenza in tutta l’area.