di Marta Coccoluto
“Il più grande esperimento di smartworking mai messo in atto”, così Bloomberg ha definito la scelta di migliaia di aziende in Cina di fare ricorso allo smartworking per restare operative e produttive nonostante i milioni di lavoratori costretti alla quarantena in casa dalle misure governative per il contenimento della diffusione del Coronavirus.
Una necessità che potrebbe trasformarsi in un’opportunità anche in Italia, dove fa notizia il decreto attuativo contenuto nel DL n.6 del 23 febbraio 2020, Misure Urgenti sul Coronavirus, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale con cui si bypassano tutti gli adempimenti normativi per l’avvio del lavoro agile.
La legge 81/2017 disciplina infatti un accordo individuale tra azienda e lavoratore per stabilire le modalità di svolgimento di lavoro da remoto, garantendo al lavoratore tutti i diritti che gli spettano in azienda e definendo tempi e strumenti di lavoro, come tablet, computer e smartphone.
In una situazione che va profilandosi come una vera e propria emergenza, le aziende dove questa nuova cultura del lavoro, caratterizzata dalla flessibilità, orientata alla produttività e che misura gli obiettivi più che le ore passate alla scrivania, è già presente partono indubbiamente avvantaggiate.
Per le altre, la sfida non sarà tanto attrezzarsi in pochi giorni per restare operativi e non fermarsi – e di certo gli strumenti non mancano e non sono sconosciuti – ma metabolizzare velocemente e sperimentare con successo un nuovo modello, che sta dando risultati eccellenti in termini di produttività – si stima che con lo smartworking e il lavoro da remoto, salga mediamente del 15-20% (fonte: Polimi) – di qualità della vita e del lavoro del dipendente.
In Italia, sono già le molte aziende che adottano lo smartworking, circa il 58% di quelle grandi, con circa 570mila lavoratori smart, e tra il 2018 e il 2019 si è registrata una crescita del 20%, che ha coinvolto anche la Pubblica Amministrazione.
Il fenomeno è dunque in crescita, anche se permane una larga resistenza a un’adozione diffusa, che potrebbe riguardare 5 milioni di lavoratori in Italia (fonte: Osservatorio Smartworking 2019), con consistenti ricadute sui bilanci delle aziende, sulla qualità della vita nelle nostre città e sull’ambiente.
Resistenza che si spiega con una filosofia aziendale che rende impensabile scindere il lavoro dal luogo dove lo si è chiamati a svolgere: il lavoro si identifica come un posto dove andare e non come un compito da svolgere o un obiettivo da raggiungere.
Il fenomeno sempre più diffuso a scala mondiale del Nomadismo Digitale sta dimostrando il contrario e i dati sullo smartworking italiano stanno riscrivendo lentamente una nuova cultura del lavoro. Manca però un deciso cambio di passo e forse proprio un’emergenza sanitaria che ha pochi precedenti come quella che stiamo attraversando in queste ore potrebbe essere la spinta che manca per una sperimentazione diffusa del lavoro da remoto, ponendo così le basi per cambiare le sorti del nostro modo di lavorare in futuro.
In fondo, è intimamente italiano “fare di necessità, virtù”.