Fino alla scorsa settimana i notiziari televisivi insistevano nel descrivere nei minimi particolari quello che facevano o non facevano i due italiani, fino ad allora ufficialmente venuti in contatto dal Covid-19, uno infettato e in via di guarigione e uno negativo al test, anche se era nella città di Wuhan con la febbre. Si diceva che erano di buon umore, che avevano ordinato la pizza, in particolare una margherita, e che stavano benone. Questa dovizia di particolari per una mia collega, medico di famiglia, era eccessiva e contrastava col fatto che in quello stesso periodo migliaia di italiani erano affetti da influenza ”normale” e centinaia morivano per la conseguenza di questa normalità.

I due italiani in questione ormai rappresentavano un simbolo. Come tutti i simboli la loro vicenda personale trascendeva la loro persona ed era una speranza a cui aggrapparsi. Se per disavventura uno dei due connazionali fosse morto, oltre al suo dramma personale avremmo assistito a un dramma psicologico collettivo.

Alcuni anni or sono un libro scritto a Napoli ottenne un grande successo, riportando i temi dei ragazzi. Il titolo Io speriamo che me la cavo rappresentava lo spirito di una terra martoriata come quella campana che però, al suo interno, vanta tante intelligenze ed eccellenze. La speranza di “sfangarla” anche di fronte alle peggiori avversità rappresenta lo spirito del popolo italico. Non per niente durante le due guerre mondiali del ‘900 ci siamo sempre inseriti quando pensavamo, a torto o a ragione, che la guerra stesse finendo per “soccorrere il vincitore”. Anche di fronte a questa emergenza sanitaria la sensazione è che individualmente cercheremo di portare a casa la pellaccia. E’ per questo desiderio inconscio di fregare le avversità e cavarsela individualmente che, simbolicamente, ci interessavano così tanto i due italiani che sono riusciti a “infinocchiare” il virus.

Negli ultimi giorni la situazione è gravemente mutata. Decine di casi nuovi di infezione di questo virus si sono palesate nelle regioni del nord Italia. In questo nuovo contesto non ci interessano più i primi casi di Roma, ma siamo sgomenti nell’apprendere come da un unico infetto sia così facile passare a oltre duecento. L’”io speriamo che me la cavo” non basta più, ma occorre adeguarsi, con spirito di disciplina, a normative che a volte cozzano con l’istinto.

Ad esempio recarsi se si ha la febbre alta al pronto soccorso può risultare una misura di automatica rassicurazione, in quanto pensiamo che lì ci possano aiutare. In realtà è assolutamente sbagliato perché espone noi stessi e gli altri presenti nel nosocomio a dei rischi. Occorrerebbe una certa avvedutezza nel segnalare telefonicamente al medico di famiglia e, tramite lui, alle autorità sanitarie la nostra situazione per poter fare un esame a domicilio ed eventualmente essere trasportati, con certe accortezze, direttamente in un ospedale attrezzato.

Rimanere in casa in caso di sintomi è importante, come dimostra la vicenda della signora che recatasi per febbre al pronto soccorso è stata, quasi sicuramente, contagiata lì dal coronavirus ed ora è deceduta. Anche il giovane 38enne affetto da Covid-19, andando al pronto soccorso due volte, ha suo malgrado contagiato molte persone e forse aggravato la sua situazione, venendo a contatto con altre infezioni.

Altro comportamento istintivo potrebbe essere quello di occultare la propria patologia per non apparire un “untore”, come venivano descritti questi personaggi nei romanzi sulla peste. Se si è reduci da un viaggio in Cina negli ultimi 15 giorni o si è avuto un contatto diretto con una persona ricoverata per questo virus e si ha anche un “banale raffreddore” con febbre e tosse, a questo punto per precauzione occorre attuare una segnalazione per poi essere, su suggerimento sanitario, posti in una sorta di auto-quarantena e eventualmente al test.

Tutto questo possibilmente senza voler vedere “di persona” il medico in quanto, purtroppo, facilmente questi può divenire, suo malgrado, veicolo del virus. Utilizzare il telefono o per sentirsi più rassicurati la videochiamata dovrebbe essere lo standard in questa fase, senza intasare le sale d’attesa dei medici. Le sale d’aspetto del medico e il medico stesso a questo punto sono il pericolo più grave di contatto con la malattia. Solo se la tosse diviene seria e compare una dispnea rilevante (difficoltà a respirare) il medico opterà per un intervento mirato.

Andare contro al proprio istinto è sempre difficile, in quanto siamo abituati a dargli retta per sfuggire le situazioni più difficili. In questo momento l’istinto tipicamente italiano del “fai da te”, del trovare una soluzione individuale e di cavarsela senza fidarsi delle autorità sanitarie, può essere veramente un problema. I comportamenti istintivi e l’atteggiamento individualista dell’”io speriamo che me la cavo” cozzano con la necessità di una rilevante disciplina. Speriamo di non arrivare nei prossimi giorni a riscoprire le parole del Manzoni sulla peste: “Il buonsenso c’era, ma se ne stava nascosto per paura del senso comune”.

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