Harvey Weinstein è stato giudicato colpevole per aver stuprato l’ex attrice Jessica Mann, nel 2013, in una camera d’albergo e per aver commesso atti sessuali criminali nei confronti di Miriam Haley, la sua ex assistente, nel 2006. Rischia dai 5 ai 25 anni di carcere per la violenza commessa contro Haley, la più grave secondo la legge americana (stupro di primo grado), e 4 anni di libertà vigilata per quella commessa contro Jessica Mann (stupro di terzo grado) ma si dovrà aspettare l’11 marzo per sapere quanti anni di prigione gli infliggerà il giudice. L’ex produttore della Miramax ha schivato il peggio perché è stato condannato solo per due capi d’accusa ed è stato assolto per le altre tre accuse che pendevano sulla sua testa, le più gravi come quelle di aggressione sessuale predatoria che avrebbero potuto costargli l’ergastolo.
Il processo era cominciato lo scorso mese di gennaio e Weinstein aveva adottato la strategia del bastone e della carota. Si era presentato in aula accompagnato dall’avvocata Donna Rotunno, soprannominata “legal rottweiler”, e con un deambulatore, forse per reali problemi di salute forse per fare scena e impietosire la giuria e la stampa, ma né l’uno né l’altra gli hanno garantito l’assoluzione. Quando è arrivato il verdetto, la Rotunno si è appellata, inutilmente, alla clemenza della corte chiedendo che a Weinstein venisse risparmiato il carcere per motivi di salute. “La legal Rottweiler” si è meritata l’appellativo per essersi specializzata nella difesa di uomini accusati di stupro (ne ha fatti assolvere 39 su 40) e per il suo modo di incalzare con accanimento le donne che li hanno denunciati, rovesciando su di esse tutti gli stereotipi sessisti possibili, nel solco del tradizionale ribaltamento dei ruoli: è la donna che denuncia uno stupro che deve dimostrare di non essere colpevole.
Il 4 febbraio scorso aveva inchiodato Jessica Mann in aula per 9 ore, fino a procurarle un attacco di panico ma nonostante un controinterrogatorio spietato non ha convinto dell’innocenza di Weinstein forse perché in quell’aula si sentiva ancora l’eco delle voci che si levarono nel 2017 col movimento Me Too. A poche ore dalla condanna, Weinstein è stato ricoverato in ospedale per un malore, rivelando quanto siano vulnerabili tutti coloro che una volta perduto il potere – e l’impunità che il potere garantisce – sono messi di fronte alle loro responsabilità e alla loro miseria.
Deve essere duro per l’ex produttore della Miramax raccattare i cocci mentre si avvia alla fine della vita e non ha possibilità di ricostruirla. La Rotunno, in aula, ha detto che Weinstein era il padrone di un castello dove tutti volevano entrare, comprese le donne che non avrebbero fatto altro che “usarlo e usarlo e usarlo” e ha cercato di convincere la giuria che le violenze e i ricatti sessuali fossero un’offerta di carriera e denaro o altri benefici.
Nell’autunno del 2017 il Me Too portò alla fine della carriera di Weinstein con lo svelamento di molte donne che raccontarono di aver subito violenze. Un movimento che coinvolse molte donne anche in Europa, in Francia con il movimento Balance to porc e in Italia con Quella volta che e che portò all’attenzione dell’opinione pubblica il problema delle molestie e dei ricatti sessuali sul lavoro e delle disparità di potere che da secoli segna le relazioni tra uomini e donne.
Vorrei sperare che abbia ragione il procuratore di New York quando dice che il Me Too ha prodotto un cambiamento ma temo che questa sia la solita vicenda gattopardesca. La condanna di Weinstein è stata la risposta alla rabbia delle donne ma fino alla nascita collettiva di una nuova coscienza, il potere continuerà a perpetuare se stesso e le proprie dinamiche, e nella disparità giocherà sempre le sue carte: violenze, violazione delle leggi e impunità, prevaricazione, omertà, rassegnazione.
Morto un Re se ne fa sempre un altro, a Hollywood o altrove (finché qualche voce non si leva a dire che ha le brache calate).
@nadiesdaa