“Il paziente ‘caso 1’, 38 anni, si è presentato al pronto soccorso dell’ospedale di Codogno una prima volta il 18 febbraio senza presentare alcun criterio che avrebbe potuto identificarlo come ‘caso sospettò o ‘caso probabile’ di coronavirus secondo le indicazioni della circolare ministeriale del 27 gennaio 2020″. L’azienda sanitaria di Lodi rompe il silenzio e dà la sua versione dei fatti dopo l’apertura di un fascicolo da parte della Procura di Lodi. Che a sua volta ha parlato di indagine “doverosa”, aperta dopo le notizie di stampa che hanno trovato conferme “nelle pubbliche dichiarazioni di un autorevolissimo esponente delle istituzioni”. Chiaro il riferimento al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che ha parlato di errori di un’ospedale da cui è partito un focolaio. Non la pensa così, però, il direttore generale dell’azienda sanitaria lodigiana Massimo Lombardo, secondo cui merita “l’ammirazione di tutti l’intuizione clinica” del rianimatore, una dottoressa, dell’ospedale di Codogno che ha sottoposto paziente 1 a tampone nonostante il suo caso, secondo i protocolli del ministero, non lo richiedesse”. Sarà l’inchiesta conoscitiva della procura a fare luce e capire se le procedure siano state rispettate o meno, non solo a Codogno, ma anche negli ospedali di Casalpusterlengo e Lodi. Intanto, nella notte tra il 24 e il 25 febbraio i Nas di Cremona hanno fatto un’ispezione all’interno delle strutture e hanno sequestrato le cartelle cliniche del paziente uno.
Procuratore di Lodi: “Inchiesta doverosa aperta dopo notizie di stampa e parole di Conte” – Tutto ciò mentre il Procuratore di Lodi Domenico Chiaro ha definito “doverosa” l’apertura di una inchiesta per accertare eventuali responsabilità nella gestione del paziente uno. “L’iscrizione di procedimento, allo stato a carico di ignoti – ha spiegato -, è apparsa doverosa, seppur con la consapevolezza che ogni eventuale responsabilità è tutta ancora da dimostrare nel pieno rispetto delle garanzie difensive. Da parte della Procura di Lodi – ha detto Domenico Chiaro – vi è piena solidarietà per quei sanitari dell’Ospedale di Codogno che sono da considerarsi vittime dell’eventuale reato commesso e che ancora oggi stanno encomiabilmente resistendo alle restrizioni imposte dalle autorità sanitarie. L’indagine è d’altronde volta – ha spiegato il procuratore – all’individuazione delle posizioni di garanzia alle quali era connesso l’obbligo di applicare la massima cautela nella gestione della struttura dopo la scoperta del contagio”. Per quanto riguarda i particolari dell’indagine, Chiaro ha sottolineato che “è stata avviata d’ufficio, come consente la legge, a seguito delle concordanti informazioni giornalistiche che – ha concluso – evidenziavano ritardi od omissioni nella gestione del predetto paziente e che hanno trovato conferma, proprio nella mattinata di ieri, nelle pubbliche dichiarazioni di un autorevolissimo esponente delle istituzioni”.
Un fascicolo conoscitivo è stato aperto anche a Padova, senza indagati né ipotesi di reato, dopo la morte di Adriano Trevisan, 78 anni, deceduto il 22 febbraio scorso nell’ospedale di Schiavonia, nella Bassa Padovana. Dopo che nelle scorse ore, in seguito alle dichiarazioni dello stesso premier Giuseppe Conte, si era aperta la polemica politica su un presunto protocollo che non sarebbe stato rispettato, oggi è arrivata la notizia dell’indagine della procura di Lodi. Il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, per parte sua, ha già preso le difese dell’operato di medici e infermieri, dicendo che “tutte le procedure sono state rispettate”. Una tesi ribadita dalla nota della Asst: “In relazione alle notizie di stampa apparse in queste ore che ci riguardano – scrive Lombardo – mi sento innanzitutto di rivolgere il mio ringraziamento e apprezzamento a tutti i professionisti degli ospedali di Lodi, Codogno, Sant’Angelo Lodigiano e Casalpusterlengo per lo straordinario impegno e la dedizione dimostrata in queste difficili ore e la nostra vicinanza alle famiglie dei malati. Naturalmente siamo a disposizione di tutte le autorità competenti che vogliano verificare la correttezza del nostro operato”.
La cronologia del paziente uno – I pm cercheranno di capire se, nella gestione del 38enne, siano stati commessi effettivamente degli errori. Il primo passo è ripercorrere quanto avvenuto nei giorni che hanno preceduto il ricovero. Il paziente uno ha i primi sintomi il 16 febbraio: è domenica, decide di restare a casa. Del 17 non si hanno al momento informazioni: non si sa cosa abbia fatto nel corso di quella giornata. La sera di lunedì 18 l’uomo si presenta al pronto soccorso: arriva alle 20.30 e da referto esce alle 22.15. Come ricostruito da il Fatto Quotidiano, viene preso in carico da cinque persone che indossano le mascherine (non quelle di tipo FFp2, indicate dal ministero solo nelle linee guida del 20 febbraio). Il paziente risponde negativamente alle domande che gli vengono fatte, come da protocollo, su viaggi in Cina o contatti con persone state in Cina: viene dimesso – secondo il dg per sua scelta – con una terapia antibiotica. Alle 3.12 di mercoledì 19 febbraio torna in ospedale con la moglie: le sue condizioni sono peggiorate. In quella circostanza è la moglie a tracciare il collegamento con la Cina citando la cena con l’amico manager appena rientrato. E qui la ricostruzione fatta dai giornali diverge con quella della Asst di Lodi. Intuizione o meno, passano 36 ore prima che al paziente venga fatto il test (intorno alle 16 del 20 febbraio) per diagnosticare il coronavirus: in quelle 36 ore resta ricoverato nel reparto di Medicina e riceve varie visite. Sono le 21.20 di giovedì 20 quando viene dichiarato positivo e diventa per tutti il “paziente uno”. Secondo il Corriere della Sera, passeranno altre due ore abbondanti prima che nel reparto scatti l’allerta e si diffonda la notizia, intorno alla mezzanotte. A quel punto il 38enne viene portato in rianimazione e intubato da due anestesisti che, pur avendo le protezioni idonee, risulteranno poi positivi a loro volta.
In quelle ore la situazione diventa rapidamente molto caotica. Si valutano varie strade, dalla chiusura dell’ospedale al trasferimento dei pazienti in altre strutture. Il personale presente, finito il turno, va a casa per auto-isolarsi. Ma medici e infermieri vengono richiamati poco dopo insieme ad altri colleghi per decidere chi far lavorare e chi no. L’ospedale sarà chiuso fisicamente al pubblico solo a metà mattina del 21 febbraio. Il Corriere della Sera riporta anche un sms inviato da un testimone presente nella struttura nella notte tra il 20 e il 21: “E’ sbagliato dire che quella notte è andato tutto bene perché non è la verità. Ma era un’emergenza mai vista e non vale accusare con il senno del poi. Diciamoci soltanto la verità, e cioè che forse la gestione di quella notte poteva andare meglio, ma diciamo anche che non era facile e che tutti hanno lavorato senza risparmiarsi. E cerchiamo di imparare dagli errori”.
Quali mascherine hanno utilizzato e cosa prevedevano i protocolli – La procedure standard degli ospedali prevede che, in presenza di un paziente potenzialmente contagioso (indipendente dalla patologia), i medici lo instradino in un percorso parallelo alla sala d’attesa per evitare contatti con altre persone in attesa. In una situazione normale, non sono del resto richieste le mascherine FFp2 (quelle cioè che proteggono anche il soggetto che le indossa rispetto a quelle normali da chirurgo). Dall’inizio della diffusione del coronavirus, però, vengono cambiati diverse volte i protocolli. Al momento in cui viene ricoverato il 38enne, sono state già pubblicate almeno due circolari del ministero della Salute che identificano come comportarsi in caso di paziente sospetto. La prima è del 22 gennaio, la seconda del 27 dello stesso mese. Nella prima si dice che sono da considerarsi soggetti “sospetti” tre tipologie di casi: chiunque abbia “un’infezione respiratoria grave”, “febbre”, “tosse” e non ha “un’altra eziologia che spieghi pienamente la presentazione clinica”; “e una storia di viaggi a Wuhan nei 14 giorni prima dell’insorgenza della sintomatologia”, “è un operatore sanitario che ha lavorato in un ambiente dove si stanno curando pazienti con infezioni respiratorie acute gravi”; “una persona” che “è stata a contatto con un infetto di Covid-19” o “è stata in una struttura sanitaria che ospita infetti di coronavirus” o ha visitato “un mercato di animali vivi a Wuhan”. Nella seconda circolare rimangono le diciture, ma, se da un lato si fa riferimento all’intera Cina e non più solo a Wuhan, dall’altro il legame tra patologia e storia di contatto/viaggio a rischio diventa più vincolante. Almeno fino al 31 gennaio, in ogni caso, il ministero della Salute scrive nelle sue comunicazioni che “il virus non circola sul territorio nazionale”. La circolare più aggiornata risale invece al 22 febbraio, cioè dopo la diagnosi paziente 1: a questo punto non è più solo chi è stato in Cina nei 14 giorni precedenti a essere sospetto, ma anche chi ha avuto contatti con chi è stato in Cina o chi ha avuto contatti con pazienti infetti. E, soprattutto, l’utilizzo della mascherina ffp2 diventa obbligatoria per chiunque si trovi di fronte ad un possibile contagio.