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Maria Sharapova lascia il tennis. E ora non ci sarà una rete a proteggerla

Entrare bambina e uscirne donna, matura, seppur nemmeno 33enne, è la storia di tante tenniste. Se questo arco di tempo, 28 anni, è il tracciante della carriera di “Masha”, Maria Sharapova, vuol dire che è un tempo che ha lasciato un segno nel mondo del tennis.

Il Tennis, con la T maiuscola, cui chiede perdono per l’abbandono è stato tutto. Prima del lavoro, della famiglia, di se stessa. Poi il successo, la fama e quest’ultima lettera. Appassionata come mai ti aspetteresti da una siberiana che alla disciplina tennistica è stata abituata sin da quando aveva quattro anni. Le parole d’addio fanno più rumore degli urli che hanno accompagnato ogni suo colpo, rendendola spesso disturbante e antipatica alle avversarie.

Costruita, altezzosa e dal carattere ruvido per i detrattori ma perché competitiva, concreta e vincente. Era giovanissima quando fu la prima russa a vincere Wimbledon nel 2004, e sconfisse Serena Williams tra l’altro. Poi l’Us Open nel 2006, l’Australian Open nel 2008 e due volte il Roland Garros (2012-14) ne hanno fatto una campionessa completa, capace di completare il Career Grand Slam nonostante i problemi alla spalla che l’hanno afflitta per tutta la carriera.

Masha ha tenuto duro, è crollata in fondo alle classifiche e più volte risorta per tornare in alto e in quei luoghi che, con parole sue: “hanno rivelato la mia vera essenza. Dietro i servizi fotografici e i bei vestiti da tennis, hanno esposto le mie imperfezioni: ogni ruga, ogni goccia di sudore. Hanno testato il mio personaggio, la mia volontà, la mia capacità di incanalare le mie emozioni grezze in un luogo in cui hanno lavorato per me anziché contro di me. Tra le loro linee, le mie vulnerabilità si sono sentite al sicuro. Quanto sono fortunata ad aver trovato una specie di terreno su cui mi sono sentita così esposta eppure così a mio agio?”.

Un terreno con una rete in mezzo è stata l’ambientazione perfetta per una vita da copertina. Adesso, con qualche riflettore e certezza in meno occorre buttarsi, senza rete. Con lo stesso sguardo di quella bimba di quattro anni che a Sochi, in Russia, grande quanto la sua racchetta, vedeva per la prima volta un campo da tennis. “All’epoca il mondo intero sembrava gigantesco […] tutto era enorme, così come il sacrificio dei miei genitori”. Non c’è dote più grande che la riconoscenza. Per lo stesso motivo credo il suo amato Tennis l’abbraccerà e la perdonerà.