Ammettono che si tratta di una decisione che “ribalta il tradizionale orientamento”. Ma spiegano questa volta la differenza è legata al fatto che la norma non modifica solo le “modalità esecutive della pena” ma la “natura stessa della pena”. Con queste motivazioni la Corte costituzionale spiega di aver dichiarato illegittima l’applicazione della legge Spazzacorrotti, nella parte che estende retroattivamente il divieto di misure alternative al carcere per i condannati per reati corruttivi. La decisione della Consulta è del 12 febbraio, oggi sono state depositate le motivazioni.
Il motivo della sentenza numero 32 del 2000 emessa dalla corte, relatore il giudice Francesco Viganò, è che se al momento del reato è prevista una pena che può essere scontata “fuori” dal carcere ma una legge successiva la trasforma in una pena da eseguire “dentro” il carcere, quella legge non può avere effetto retroattivo. Tra il “fuori” e il “dentro” vi è infatti una differenza radicale: qualitativa, prima che quantitativa, perché è profondamente diversa l’incidenza della pena sulla libertà personale. Se al momento del reato, dunque, è prevista una pena che può essere scontata “fuori” dal carcere ma una legge successiva la trasforma in una pena da eseguire “dentro” il carcere, quella legge non può avere effetto retroattivo.
La corte, si legge nelle motivazioni, “ritiene necessario procedere a una complessiva rimeditazione della portata del divieto di retroattività sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., in relazione alla disciplina dell’esecuzione della pena”. Questo perché “l’orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità circa il carattere processuale delle norme dell’ordinamento penitenziario” va oggi letto “anche alla luce delle indicazioni provenienti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo”. Fino a ora, infatti, sia la Cassazione che la stessa Corte costituzionale avevano sempre seguito un orientamento diverso: le pene devono essere eseguite in base alla legge in vigore al momento dell’esecuzione della pena, e non a quella in vigore al momento del fatto. A essere rimeditato è appunto l’articolo 25 della Costituzione, secondo cui nessuno può essere punito con una pena non prevista al momento del fatto o con una pena più grave di quella allora prevista, che opera come “uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico, che stanno al cuore stesso del concetto di Stato di diritto”.
E quindi, continua la corte, se, di regola, è legittimo che le modalità esecutive della pena siano disciplinate dalla legge in vigore al momento dell’esecuzione e non da quella in vigore al momento del fatto (anche per assicurare uniformità di trattamento tra i detenuti), ciò non può valere “allorché la normativa sopravvenuta non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”. Questo perché la Spazzacorrotti ha reso assai più gravose le condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione e alla liberazione condizionale, e per questo motivo secondo la Consulta non può essere applicata retroattivamente dai giudici. Le stesse considerazioni valgono per il meccanismo processuale della sospensione dell’ordine di esecuzione della pena in caso di condanna a non più di quattro anni per chiedere al tribunale di sorveglianza l’ammissione a una misura alternativa alla detenzione.
La consulta, dopo aver sottolineato che la legge Spazzacorrotti non contiene alcuna disciplina transitoria, ha dichiarato incostituzionale parte della legge Spazzacorrotti, “in quanto interpretata” nel senso che le modificazioni da essa introdotte si applichino anche ai condannati per fatti commessi prima della sua entrata in vigore, con riferimento alle misure alternative alla detenzione, alla liberazione condizionale e al divieto di sospensione dell’ordine di esecuzione della pena. Il comunicato stampa della Consulta sottolinea che “i principi così sanciti non riguardano i permessi premio e il lavoro all’esterno, che quindi continuano ad essere regolati dalla legge in vigore al momento dell’esecuzione della pena”. Tuttavia, la Corte ha chiarito che “ciò non significa, peraltro, che al legislatore sia consentito disconoscere il percorso rieducativo effettivamente compiuto dal condannato che abbia già raggiunto, in concreto, un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio”.