Il ponte che porta all’isola Tiberina segna il solito spazio di sospensione. Dietro, la Sinagoga e poi il ghetto. Davanti l’ospedale. A sinistra, una chiesa che dà sul cortile più assolato di Roma. Sotto, sul fiume, uno spazio abbastanza ampio da ospitare manifestazioni estive da più di un decennio. Dall’altra parte, Trastevere, introdotta da un furgoncino che vende grattachecche. Rassicurante e immobile nei secoli dei secoli.

Metti un’ordinaria mattinata durante l’emergenza coronavirus. L’ingresso del Fatebenefratelli è più sguarnito del solito. Meno gente, meno venditori ambulanti, meno malati in carrozzella. C’è un cartello che illustra il decalogo per affrontare l’epidemia (chi lo sa se diventerà mai pandemia?). Devo far controllare un occhio: disturbo banale, ma la cosa più semplice è l’ambulatorio ospedaliero. Prendi un numeretto e ti visitano anche piuttosto rapidamente. Quaranta euro e passa la paura. Entro. Non c’è la solita concitazione. Una coppia di giovani cinesi dà il biberon a un bambino sul passeggino. Intorno a loro, il vuoto. Isolamento naturale. Di questi tempi, un’immagine straniante. La fila per le accettazioni è rapidissima.

Parentesi personale: gli ospedali per me sono paradossalmente luoghi rassicuranti, gangli vitali, dove anche la tragedia a volte assume le sembianze di una normalità accettabile. Naturalmente è soprattutto un approccio psicologico, una prospettiva tutta mia. Ma in ospedale anche le situazioni peggiori mi sembrano affrontabili. Cosa che non succede al bar, per strada o in una clinica privata (per dire).

Ma insomma, adesso c’è qualcosa di diverso. Di mascherine ne vedo forse solo un paio, non percepisco concitazione, non sento le sirene delle ambulanze. In questa strana mattinata, l’ospedale mi sembra un luogo straniato, espropriato, svuotato. “Non andate al Pronto soccorso”, è una delle principali raccomandazioni, ripetuta ossessivamente in tutte le sedi possibili. Quello del Fatebenefratelli è effettivamente semivuoto: 5 o 6 persone, un paio con le mascherine nella piccola anticamera. Uno dei pazienti in attesa viene chiamato più volte prima di rispondere. “Ero fuori, mi scusi”. “Sono dieci minuti che la cerchiamo, evidentemente il dolore non era così forte”. Lui, un uomo alto e ben piazzato, si tiene un fianco e non risponde. Forse è più forte la paura?

Il contagio si propaga, il virus si diffonde, il senso di pericolo aleggia nell’ospedale. Sembra un non-luogo, una non-soluzione, una non-risorsa. Uno strano slittamento antropologico e sociologico: se non può intervenire nelle emergenze, cosa resta? La poca frenesia intorno a me comunica una sottile inquietudine. Mentre mi lascio alle spalle l’Isola, mi sembra di aver attraversato uno spazio sconosciuto, di aver viaggiato dentro una trasformazione.

Insieme a me, sul ponte, c’è una famiglia. Un bambino di 4 anni appeso alla mano del padre, protesta, deluso: “Ma io volevo incontrare la coronavirus”. Lui si fa una mezza risata: “Lascia perdere”. Mi si materializza davanti una corona, con tanto di scettro. Sintomi di un immaginario collettivo dominato.

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