In un momento in cui razionalità e ragionevolezza andrebbero potenziate in ogni ambito, è ancor più fondamentale che la facciano da padrone nella conduzione delle carceri. Se mai il virus dovesse entrare in un penitenziario, specie se di grandi dimensioni, la gestione dello spargersi del contagio diverrebbe difficilissima. Ben lo sanno le persone che in carcere lavorano e quelle che vi sono detenute, le quali tra l’altro, nell’isolamento dal mondo circostante, vedono inevitabilmente aumentata quell’ansia che ha colpito grande parte della popolazione esterna.

Il carcere non è – fortunatamente – un universo a sé. In carcere c’è movimento, le mura di cinta sono quotidianamente varcate da molte persone in una direzione e nell’altra. Ci sono naturalmente i poliziotti e gli altri operatori penitenziari che si recano a lavorare dentro gli istituti. Ci sono gli avvocati che vanno a parlare con i propri assistiti. Ci sono gli insegnanti di scuola, che tengono i corsi all’interno. Ci sono i volontari, che sono i responsabili di una gran parte delle attività culturali, ricreative, sportive che si svolgono in carcere. E poi ci sono i detenuti che escono dal cancello per andare in udienza, per andare a lavorare quando sono destinatari della misura del lavoro esterno, per andare in permesso premio o addirittura per usufruire di una misura alternativa alla detenzione. Questi sono solo alcuni dei movimenti che ruotano attorno alle carceri e che potrebbero portare un virus all’interno di quello spazio chiuso.

L’amministrazione penitenziaria ha diramato circolari di buon senso su come affrontare la situazione. Si prevede ad esempio che vengano predisposti dei presìdi all’esterno del carcere per controllare le condizioni di chi entra, che vengano sospesi o ridotti i trasferimenti che riguardano carceri in zone a rischio, che vengano limitati gli ingressi di persone dall’esterno. Alcuni singoli istituti di pena, però, sono andati oltre e, nonostante si trovassero in zone ben lontane da quelle a rischio, hanno disposto chiusure quasi totali verso l’esterno e sospensione di ogni attività che impegnava le persone detenute. Ma, al di là di iniziative estemporanee che non prendono troppo piede, tutti sembrano rendersi conto con equilibrio della necessità di proteggere tanto le esigenze di salute quanto quelle legate alle necessità ordinarie dei detenuti: contatti con i famigliari, colloqui con gli avvocati, vita quotidiana interna che può coinvolgere volontari o altre figure.

È importante che si continui a mantenere con fermezza tale equilibrio. È importante che non si scivoli verso una compressione non strettamente necessaria della vita detentiva. Chi è in completa custodia dell’autorità pubblica ha inevitabilmente una forza limitata di protezione dei propri diritti. In un momento tanto poco ordinario quale quello che stiamo vivendo, è dall’esterno che questi diritti devono essere sorvegliati e promossi.

La situazione attuale può diventare un’occasione per adeguare alcuni aspetti organizzativi delle carceri a linee di indirizzo che già più volte in passato il sistema stesso aveva tentato di darsi con scarso successo. È ad esempio del 2013 la disposizione dell’allora Commissione per le questioni penitenziarie del Ministero della Giustizia che prevedeva l’organizzazione dei colloqui via skype. Il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria è tornato più volte sul tema, ma a oggi non sembra che i singoli istituti si siano attrezzati sufficientemente allo scopo. Oggi se ne riparla in occasione del coronavirus, incentivando anche quei detenuti che non hanno visitatori provenienti dalle zone focolaio a sostituire i colloqui visivi con telefonate e chiamate skype.

Ma soprattutto si può cogliere il momento attuale per spingere in avanti il modello detentivo secondo parametri costituzionali di esecuzione delle pene. Se queste ultime devono tendere a reintegrare il condannato nella società esterna, maggiori opportunità di contatto si creano con essa e minori cesure, più facile sarà il raggiungimento dello scopo. Oggi il detenuto in regime ordinario ha diritto da legge a dieci minuti di telefonata a settimana e a sei colloqui al mese della durata di un’ora con le persone care. Che senso ha una disposizione così restrittiva? È un’inutile afflizione che non aiuta, e anzi ostacola, il reinserimento sociale e che si somma alla pena in sé, ovvero alla reclusione in carcere. In molti Paesi europei i detenuti possono usare il telefono, a volte addirittura posizionato dentro la cella, in maniera ben più libera. È un modo, tra l’altro, per contrastare quel traffico interno ed illecito di telefoni cellulari che molto preoccupa il nostro Ministero della Giustizia.

Pochi giorni fa il senatore del Partito Democratico Franco Mirabelli ha presentato una proposta di legge nella quale si amplia l’accesso alle telefonate per i detenuti fino a una telefonata al giorno. La proposta va nella stessa direzione di quella avanzata da Antigone anche come prevenzione dei suicidi in carcere, percentualmente elevatissimi rispetto a quelli che si verificano nella società libera. La lontananza dagli affetti getta nella disperazione. “Se stanno in carcere qualcosa avranno fatto, peggio per loro”, si dirà. Appunto: stanno in carcere. È questa la punizione. Chi ne chiede altre aggiuntive non ha capito il senso della giustizia penale. L’emergenza sanitaria di questi giorni potrebbe essere gestita in linea profonda con un tale senso.

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