All’ultima distribuzione di cibo del Pane Quotidiano, sabato 22 febbraio, il panico da Coronavirus non si era ancora diffuso tra la gente in coda, la fascia bisognosa e meno informata della popolazione milanese, in prevalenza composta da immigrati africani, sopratutto mamme col fazzoletto sul capo e bambini attaccati alla veste. Il tram Sirietto era vuoto, ma in viale Toscana, sotto alle sagome di un bianco abbacinante del nuovo campus Bocconi, c’era consueta fila del sabato mattina, prima della chiusura domenicale.

Di fronte a me in coda c’era una coppia di Leopoli, un uomo e donna sulla cinquantina, forse marito e moglie, la classica coppia di ucraini indigenti, tipo badante disoccupata e manovale senza lavoro, che può capitare di incontrare al Pane Quotidiano. Si ironizzava sulle abitudini alimentari dei cinesi, sui piatti a base di pipistrello (“letjucha misha”, topo-volante in ucraino), animale indiziato di essere causa dello spillover, il salto di specie del virus verso l’uomo, nonché ingrediente di alcune zuppe orientali, nonché il titolo del terrificante reportage di David Quammen sulle nuove pandemie.

Una volontaria allietava la gente in coda con una trombetta, i cibi distribuiti nell’ex centrale del latte erano pane di segale bio senza lievito, latte, formaggio Philadelphia, tiramisù e molte verdure: finocchi, carciofi e il sedano questo sconosciuto, la cui vista generava domande: che cos’è? e come si usa? Non mancava uno di quei prodotti che non devono avere grande successo commerciale e per questo arrivano qui e cioè i fermenti lattici dell’Actimel all’eucalipto. Il gusto è strano, ma fanno bene. E lo stesso valeva qualche giorno prima per il Philapelphia al cetriolo.

Lunedì 24 febbraio, dopo la chiusura domenicale, il Pane Quotidiano non ha riaperto e neanche nei giorni successivi, pur essendo l’unico servizio alimentare a Milano che prevede l’asporto, per giunta all’aperto e non il consumo in mensa. Mi dicono che riaprirà il 2 marzo e ora i volontari lavorano dietro al cancello chiuso mentre una coppia di sudamericani pensa di essere arrivata troppo tardi e chiede di poter entrare: il servizio è aperto dalle nove alle undici, salvo coda da smaltire, specie di sabato, ed è quasi mezzogiorno. Provo a indagare sulle ragioni della chiusura e della riapertura. Qualunque siano sembrano in contraddizione.

Luigi Rossi, vicepresidente della Associazione Pane Quotidiano, mi dice che si è trattato di una scelta dettata dalla prudenza e seguita alle notizie che arrivavano dal focolaio del lodigiano: “Sì, è vero – ha spiegato – la distribuzione avviene all’aperto, ma si formano sempre code”. Chiedo come mai ci sarà la riapertura. “Se in un primo tempo la priorità è stata la tutela della salute – risponde -, ora la priorità è l’aiuto alle persone indigenti. Non le possiamo abbandonare facendo pagare loro il prezzo dell’emergenza. Alla luce di quanto è emerso la situazione sembra meno grave. L’unica criticità è la coda, ma ci sarà un presidio della Croce Rossa che farà mantenere la distanza di sicurezza tra le persone e le informerà dei rischi del contagio e delle precauzioni da prendere. Abbiamo avuto la disponibilità dei volontari a distribuire il cibo e possiamo tornare a distribuire cibo sia in viale Toscana che in viale Monza”. Il Pane Quotidiano esiste da oltre un secolo: siete stati chiusi in altre occasioni o è la prima volta? “Io lavoro al Pane Quotidiano da diciotto anni ed è la prima volta, ma esistiamo dal 1898 e suppongo che al tempo della febbre spagnola – questa sì una vera pandemia da milioni di morti -, il servizio si sarà fermato”, conclude Rossi con una venatura di ironia virale, per sdrammatizzare.

Dopo le sei di sera si fa buio e mi trovo davanti all’ingresso della mensa dell’Opera San Francesco, la principale mensa cittadina per i poveri, gestita dai frati cappuccini, vicino all’hotel cinque stelle Chateau Monfort. L’hotel è deserto, ma non l’Opera San Francesco. I poveri non possono cambiare programma. Qui il servizio non si è mai fermato, ma invece del pasto o della cena al tavolo si entra e si prende un sacchetto contenente il cibo. Non più di quattro alla volta. Il servizio di distribuzione abiti è stato interrotto, ma quello delle docce no. L’igiene è ancora più importante. L’accesso alla mensa avviene come al solito tramite tessera. Dopo averla passata nel lettore, si spinge una porta girevole di acciaio e si ritira la borsa di fianco a quello che era il buffet con il cibo, sotto lo sguardo impassibile di un operatore in guanti e mascherina. La borsa contiene una cotoletta di pollo impanata con contorno di zucchine, una banana e un panino. All’ingresso sono parcheggiate alcune biciclette tra cui quella di un rider di Uber Eats. Il lavoro per chi consegna cibo non manca, visto che nessuno vuole uscire, ma i soldi bisogna sudarli e un pasto gratis fa sempre comodo.

Un altro luogo ormai storico della solidarietà alimentare milanese – “Chi volta il culo a Milano volta il culo al grano”, dice un proverbio – sebbene più recente degli altri due, è il ristorante Ruben nel quartiere del Giambellino, dove la periferia riqualificata lascia il posto a quella più disagiata tra le grandi sede di aziende. Ruben non è una classica mensa per i poveri, ma un ristorante per i nuovi poveri. Vale a dire soggetti che si trovano temporaneamente in crisi, non indigenti cronici e senza volontà o speranza di risollevarsi. Si accede con la tessera dopo un colloquio e si paga un euro simbolico proprio per non avere il senso della carità ma della solidarietà. Anche per entrare alla mensa dell’Opera San Francesco ci vuole la tessera, ma non un colloquio. Mentre al Pane Quotidiano non ci vuole nessuna tessera. Chiunque richieda cibo riceve cibo: questa la filosofia. Teoricamente anche Berlusconi o Donald Trump.

Ruben si trova in via Gonin, il nome che assume via Giambellino procedendo verso il tramonto e l’Ikea. Il tram è pieno, alla faccia della paura del contagio, ma si svuota completamente mentre arriviamo alla fermata. Ruben fa servizio solo di sera, incluso il sabato, e appartiene alla Fondazione Pellegrini. L’ex presidente dell’Inter, Ernesto Pellegrini, ha intitolato il ristorante a un contadino che aveva conosciuto in gioventù ed era finito in miseria nera. Non aveva potuto aiutarlo, perché era ancora un ragazzo senza mezzi economici, ma lo ha risarcito in questo modo. L’insegna con il suo nome risplende nel buio del Giambellino, almeno fino alle otto e qualcosa di sera. Il ristorante offre cifro di qualità decisamente superiore a quello di una mensa per poveri, ma anche di una normale mensa, con una scelta di primi e secondi e bevande alla spina tra cui un chinotto Slow Food. In pratica è lo stesso cibo che mangiano i dirigenti della Pellegrini. Entro passando accanto ai locali della Huawei e mi dicono che il grande produttore di telefoni cinese all’inizio ha imposto l’uso della mascherina e poi ha chiuso del tutto questi spazi aziendali.

Quando l’emergenza del Coronavirus è esplosa anche in Italia, l’amministratore delegato della Fondazione Pellegrini, Giuseppe Orsi, di origine lodigiana, ha voluto mantenere il servizio passando, come l’Opera San Francesco, dalla modalità del pasto al tavolo a quella dell’asporto e dalla modalità del pagamento di un euro a quella gratuita. Le mamme – soprattutto nordafricane, ma non solo – possono ritirare anche il cibo dei figli senza doverseli portare dietro e ci sono diversi menù a scelta. Il cibo è stato abbattuto per ragioni igieniche e deve essere riscaldato a casa. I volontari continuano a garantire il servizio per oltre cento cene al giorno. Non possono entrare più di quattro persone alla volta. Arrivando qui in tram dalla San Francesco mi sono incantato a guardare una donna appena uscita dalla mensa di viale Piave che si reggeva con le mani nude al sedile davanti a lei, quasi abbandonandosi a un abbraccio, alla faccia del virus, mentre su un altro sedile era scritto in pennarello nero “a morte i cinesi”.

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