Non si vive solo di Coronavirus. Grasso che cola sull’incapacità di chi ci (s)governa, tanto da farci rimpiangere anche il peggiore dei governi democristiani del passato.
Ventisei milioni di euro. Buttati al vento per abbattere il monumento/simbolo di Gomorra e di tutti i mali del mondo. Ventisei milioni di euro di soldi pubblici che invece potevano essere investiti, chennesò, nella Sanità che mai come in questo momento ne avrebbe giovato. “L’abbattimento delle Vele di Scampia è vissuto come un rito liberatorio che avrebbe messo in fuga tutte le negatività che si sono accumulate negli anni su questo territorio. In realtà esso rappresenta, a mio avviso, soltanto la metafora del fallimento di una città”, scrive Agata Piromallo Gambardella, docente universitaria, sul Riformista-Napoli, coraggioso quotidiano diretto da Marco Demarco (tra le ambizioni ci sarà anche quella di far riaprire qualche edicola che nel frattempo si è chiusa, si augura il neo-direttore. E noi pure).
La demolizione della Vela Verde rientra nel più ampio progetto Re-Start Scampia e prevede, nella prima fase, l’abbattimento delle Vele A (verde), C, D e la rigenerazione della Vela B. Ma era proprio necessaria questa emorragia di soldi?
Negli anni ’60, quando tutto il Paese si era gettato a capofitto nel costruire e nel consumare, le Vele avrebbero dovuto realizzare l’utopia di creare una comunità fuori dai vicoli della città. Divenne invece un non-luogo, regno dei boss e dello spaccio di droga. I napoletani ora battono le mani davanti al crollo delle Vele perché vince la solita retorica per cui dovrebbe seguire a ruota l’altro crollo, quello della piramide del crimine. “Ma, in realtà, sotto le ruspe cade soltanto il tentativo di aver voluto dare a Napoli nuovi spazi di vivibilità. Cade, dunque, un grande progetto abitativo che era iniziato tenendo presente addirittura il modello di Le Corbusier e che poi ha mostrato in maniera inequivocabile come sia facile passare da un progetto di comunità-modello alla realtà del ghetto”, continua la Gambardella.
Rimane in piedi solo l’illusione che dopo questi abbattimenti si ricostruirà una nuova area, questa volta improntata a solidi criteri di vivibilità. Ma quanto dovremmo aspettare? Altri trent’anni? E, nel frattempo, i milioni di euro continueranno a scorrere come un fiume in piena anche nelle tasche dei politici/appaltatori. “L’abbattimento delle Vele non è un tentativo di sconfiggere Gomorra ma è la presa d’atto che in questa città si gioca a fare e a disfare, come farebbe un bambino con il lego, senza una visione d’insieme, senza alcuna spinta ideale verso un diverso modello di società. Solo parole, solo progetti rimandati a un futuro utopico o, meglio, distopico”, conclude.
Una sola Vela, azzurra, resterà lì non solo per servire da fondale alle nostre fiction ormai di successo planetario ma anche per ricordare ai posteri il fallimento di una città e delle classi politiche che l’hanno governata. La figlia dell’architetto Franz Di Salvo, il quale progettò le Vele negli anni ’60, in un’intervista rilasciata al Corriere del Mezzogiorno ricorda come l’intenzione, poi tradita, del padre fosse stata quella di coniugare in maniera armoniosa spazi riservati alla vita comunitaria con le esigenze abitative dei singoli e conclude: “Oggi la città non ha niente da festeggiare”.
L’abbattimento delle Vele, infatti, è solo l’ultimo atto della rappresentazione di una città che nasconde la sua impotenza dietro i soliti rumori da Luna Park.