Già l’Università è un punto di passaggio, sospeso fra la giovinezza e la vita vera. Se poi arriva il Coronavirus, allora vengono strani pensieri. Perché, forse non ci crederete, ma all’Università si lavora davvero, cioè si ricerca, si studia, si scrive. Eppure, almeno per le materie “umanistiche” come la mia, il diritto, lo si fa soprattutto da casa: davanti al proprio computer. Nelle aule universitarie, come dico io, ci si va per divertirsi: cioè per fare happening come lezioni, esami, lauree e consigli. Se poi si abita a cinquecentocinquanta chilometri dalla propria sede, e si fanno sette-otto ore di treno per arrivarci, ecco che il Coronavirus – questo fenomeno sospeso anch’esso fra semplice influenza e peste del Duemila – rimette in gioco tutto.
In generale, il picco del coronavirus, capitato fra la fine degli esami invernali e l’inizio delle lezioni primaverili, è stato accolto dagli universitari come l’esilio sugli alberi di cui parla il Barone rampante di Italo Calvino. Quando il protagonista chiede agli esiliati spagnoli come passino le loro giornate, cioè, loro rispondono: “sacramos (smadonniamo) todo el tiempo, señor”. Perché, c’è poco da dire, se non hai ancora finito gli esami invernali, come in certe facoltà scientifiche, e devi iniziare i corsi primaverili, bisogna riprogrammare tutto. E con la carenza di aule e i calendari fissati almeno un anno prima, per finire le lezioni a maggio e iniziare gli esami estivi a giugno, ci vorrebbe il mago Houdini.
Esattamente a questo punto, di solito, arriva l’idiota tecnologico, diffusissimo anche in ambiente universitario, con la frase: che problema c’è? Ci sono il telelavoro, le teleconferenze, i collegamenti skype: basta attrezzarsi. E qui bisognerebbe dire che sotto il nome «università» sta un arcipelago di tribù diversissime, con usi e costumi altrettanto differenti e a volte pittoreschi, ma che presentano esigenze a volte incommensurabili. Sicché soluzioni tecnologiche come le lezioni online, quando si è già attrezzati, i numeri sono piccoli, gli studenti si devono laureare e/o le lezioni consistono in lavagnate di formule, ok, ci possono anche stare. Ma l’università online generalizzata no, quella è peggio del Coronavirus.
Certo, ci sono università pubbliche e private, con lezioni frontali, come si dice, od online, le cosiddette telematiche, particolarmente care, come qualcuno ricorderà, alla Gelmini buonanima: ma proprio lì sta il problema. Dietro l’idiota tecnologico, infatti, sta spesso l’idiota politico, o amministrativo, o finanziario, che non avendo mai capito a cosa diavolo servono le università, anche per la banale circostanza di non averle mai frequentate, s’immagina che internet possa risolvere anche questo problema: non il problema Coronavirus, voglio dire, e che è passeggero, ma proprio l’Università, che resta.
Dopotutto – questa l’ideona che fatalmente si fa strada nelle menti dei nostri tecnologi, politici, amministratori e autorità finanziarie – perché pagare migliaia di professori e di personale tecnico-amministrativo, quando si può telematizzare e centralizzare tutto, trasmettendo online pochi corsi di lezioni, magari unici per tutt’Italia, magari da un palazzone in stile littorio alla periferia di Roma, con docenti scelti dal regime, ovviamente, risparmiando, proprio come con gli stipendi dei parlamentari? Pensateci: perché non liberarci una volta per tutte di questa classe di scocciatori, gli accademici, pieni di privilegi, prima di tutto quello di fare un lavoro che gli piace, figurarsi, eppure sempre scontenti, sempre pronti a discutere e criticare, specie quando hanno un blog sul fattonline?