di Franco Scarpelli *

Molti interrogativi stanno preoccupando gli operatori del lavoro, e prima di tutto i lavoratori e le imprese, su quali siano gli effetti delle riduzioni o sospensioni dell’attività lavorativa dovute all’emergenza coronavirus. Il governo sta iniziando ad occuparsi anche di questi temi, come avvenuto col decreto legge n. 9 del 2 marzo e il Dpcm del 1° marzo, che affrontano alcuni (ma non tutti) i problemi già emersi nella prima settimana di emergenza.

Nei Comuni della cosiddetta zona rossa molte attività produttive, private o pubbliche, sono obbligatoriamente sospese. Ma la sospensione può interessare anche altri territori, o perché riguarda lavoratori sottoposti a misure restrittive (perché provenienti dalla zona rossa, o in quarantena) o perché riguarda attività sospese o ridotte (ad esempio le palestre e piscine in Lombardia). In quei casi che ne è della retribuzione? Chi paga la sospensione? E se la sospensione del lavoro o di alcuni lavoratori è disposta dall’impresa per fini di prevenzione, cosa accade?

Di fronte a questi interrogativi il giurista cerca prima di tutto se vi sia una disposizione specifica che dia una risposta. In assenza, si deve ragionare sulla base delle regole generali e dei principi, tenendo conto che in molti casi vi sarà la necessità di operare un cosiddetto “bilanciamento” tra diritti: quelli di lavoratrici e lavoratori, ma anche quelli dell’impresa e della collettività.

Per le attività sospese dalle varie ordinanze (per imprese o per singoli lavoratori) siamo innanzi a sospensioni per fatto non imputabile al datore di lavoro. Giuridicamente viene meno l’obbligo di pagare la retribuzione e versare i contributi, ma si può fare ricorso agli ammortizzatori sociali, in particolare la cassa integrazione guadagni ordinaria, che prevede una indennità reddituale e la contribuzione figurativa.

Il Dl n. 9 ha reintrodotto la cosiddetta cassa in deroga, per le attività non rientranti nel campo di applicazione dell’istituto, superando in parte il problema dei limiti oggettivi di applicazione, anche se rimangono limiti soggettivi (ad esempio sono esclusi i lavoratori domestici e i dirigenti). Il trattamento di integrazione ha però dei tetti e può dunque comportare, soprattutto per i lavoratori con le retribuzioni più elevate, abbattimenti significativi del reddito.

Meglio proseguire nel lavoro, dunque, ed a questo puntano le norme che riducono vincoli e formalità per attivare il cosiddetto “lavoro agile”: anche se, va detto, questo istituto viene spesso confuso in questi giorni con il telelavoro, che è una modalità di lavoro a distanza che non modifica per il resto regole e obblighi del lavoro (ad esempio l’osservanza dell’orario di lavoro).

Il DL 9 aggiunge poi, ma solo per i dipendenti pubblici, che le assenze dovute alle misure di contenimento del contagio siano considerate come servizio ordinario e regolarmente retribuite (viene meno solo l’indennità di mensa). La stessa norma, per i pubblici, equipara la quarantena al ricovero ospedaliero.

Più incerta è la situazione di imprese e attività che non sono interessate a sospensioni obbligatorie, ma adottano misure prudenziali di sospensione o riduzione del lavoro. Non c’è questione, ovviamente, se le parti si accordano per la gestione del periodo di emergenza: lavoro a distanza, attività di aggiornamento o formazione, utilizzo di ferie o permessi (questi ultimi però, a mio parere, non possono essere imposti).

Per le sospensioni decise unilateralmente dal datore di lavoro, la regola generale è che la retribuzione sia comunque dovuta. Certo, dovranno essere valutati i singoli casi, non potendo escludersi che la sospensione sia riconducibile all’adempimento di un vero e proprio obbligo di sicurezza e prevenzione. In tale ipotesi si ripropone l’interrogativo se sia dovuta la retribuzione (salvo, anche qui, valutare se possa attivarsi la cassa integrazione).

Invece, se la scelta di non recarsi al lavoro è del dipendente, in assenza di obblighi e per motivi di mera prudenza, egli non avrà diritto alla retribuzione (salvo accordi con l’impresa), e dovrà anzi preoccuparsi di giustificare ragionevolmente la sua scelta (ad esempio facendo riferimento ai consiglio del medico curante), per evitare che la stessa dia luogo a conseguenze disciplinari.

Altri e più gravi problemi potrebbero porsi se l’emergenza non rientrerà al più presto, con rischi di conseguenze sulla stabilità dei posti di lavoro (cioè licenziamenti). Auguriamoci che non sia così, fermo restando che al minimo sentore è opportuno che chi lavora si procuri una assistenza specialistica, di un buon ufficio vertenze sindacale o di un avvocato del lavoro.

* Professore di Dirito del lavoro all’Università di Milano-Bicocca, è avvocato del lavoro e fondatore del network di studi Legalilavoro, rete nazionale di studi legali che assistono lavoratrici, lavoratori e organizzazioni sindacali (www.legalilavoro.it).

E’ tra i soci fondatori di Wikilabour, Dizionario on line dei diritti dei lavoratori. Ha al suo attivo decine di pubblicazioni scientifiche e divulgative in materia di lavoro, subordinato o autonomo, privato o pubblico, e in materia di contrattazione collettiva e relazioni sindacali.

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