di Alessandro Colombini
Appurato dal 1969, con la femminista Carol Hanisch, che il personale è politico, alle anime belle di questo paese resta solo da scoprire che pure l’abbigliamento lo è. No, non le magliette che esaltano gli assassini fascisti della X Mas in vendita serenamente a Predappio, le magliette del Cinema America che a Trastevere ti costano un’aggressione squadrista, oppure quelle antifasciste che a Torino ti fanno rischiare di finire sotto una macchina al grido di “muori, antifascista di merda!”.
Le magliette sono altre, sono realizzate e vendute dal marchio romano Pivert, hanno nomi come Cyrenaica e Raetia (se mi chiedi chi è / la ragazza per me / Imperium, io dico te) e uno stile di presentazione e vendita praticamente perfetto nel suo essere accattivante e nel suo giocare con l’italianità del marchio. Anzi, sembra proprio che in vendita non ci siano magliette bianche con una stampa sopra a 35 euro, ma la sempreverde retorica su un concetto di italianità fortemente nazionalista che, – si badi bene -, non ha niente a che fare con la valorizzazione del “Made in Italy”. Una retorica che abbiamo sentito e risentito tante, troppe volte provenire da ambienti legati al neofascismo italiano (o al Fascismo del Terzo Millennio, se lor signori preferiscono) come Casapound Italia.
Immaginate quindi la nostra sorpresa quando abbiamo scoperto che Francesco Polacchi, amministratore unico con il 70% di Pivert (l’altro 30% è intestato alla società Minerva Holding, a sua volta divisa tra Polacchi, la sorella e la madre) e responsabile della casa editrice Altaforte al centro delle polemiche al Salone del libro di Torino 2019, si definisce “un militante di Casapound, anzi il Coordinatore regionale della Lombardia. E sono fascista, sì. Lo dico senza problemi. L’antifascismo è il vero male di questo Paese”.
Ovviamente gli impensabili legami tra Pivert e Casapound non si basano solo sulle “simpatie” politiche di Francesco Polacchi, come le passioni dello stesso non si esauriscono con l’editoria e l’imprenditoria: Polacchi è stato condannato in primo grado l’11 febbraio scorso per l’aggressione di un esponente dell’Anpi e di un attivista per i diritti dei migranti a Milano. Pivert è “tre cuori e una sede legale”, via Diomede Pantaleoni 31 a Roma, con la casa editrice Altaforte, come sottolineato sempre di proprietà di Polacchi e divenuta celebre dopo il libro “Io sono Matteo Salvini”, e la rivista Il Primato Nazionale (stampata dalla stessa Altaforte), da sempre identificata come la stampa di Casapound. Se al posto di fascisti ci fossero stati gattini verrebbe da dire che vogliono semplicemente stare… vicini vicini!
Possiamo solo immaginare lo stupore del lettore, arrivato a questo punto, nello scoprire che questo articolo parla di calcio. Sì, perché nonostante questo Paese continui a ripetersi come delirante mantra che il calcio è “solo uno sport” e che la politica non c’entra niente, la politica nel calcio c’entra perché, tornando all’apertura del post, il calcio, come il personale e l’abbigliamento, è politica. Perché una destra che si sta prendendo tutto non avrebbe motivi per non mettere lo mani su quello che è “solo uno sport”. Ed è qui che si apre lo scenario dove Pivert mette in atto un gioco entrante nel calcio italiano, sfruttando una certa popolarità negli stadi italiani e insidiando un primato di vestiario casual che fino ad oggi era stato del marchio bolognese Stone Island.
Andrea Petagna (rinomato fan di Salvini) e Bryan Cristante, al tempo entrambi all’Atalanta, si fanno fotografare ad un’inaugurazione di un negozio Pivert; Ernesto Chevanton e Fabrizio Miccoli (entrambi con il Che Guevara tatuato) si fanno fotografare alla sede leccese di Pivert; il giornalista sportivo Paolo Bargiggia ne è grande fan, così come Christian Vieri che si fa fotografare con la busta Pivert insieme al “comico” Enrico Pucci e Nino Ciccarelli (leader dei Vikings Inter, tra i gruppi ultras più a destra in Italia), mentre la più nota di tutti è stata la comparsata di Matteo Salvini con giacca Pivert durante la finale di Coppa Italia Juventus-Milan.
I personaggi in questione – escludendo ovviamente i casi di Salvini e Bargiggia– non hanno, per quanto ne possiamo sapere noi, niente in comune con Casapound, con Polacchi o con le loro idee il paradossale caso di Chevanton e Miccoli ne è emblematico. Sono semplicemente vittime di una normalizzazione del fascismo che li rende irriconoscibili a chi prima di farsi una foto non ha voglia di incrociare le sedi legali di tre aziende. La colpa non è dunque loro, ma nostra. In questa società dove il calciatore è un modello da seguire pretendiamo da loro un comportamento esemplare dentro e fuori dal campo, e nei giudizi siamo severissimi. Da quando abbiamo iniziato a indignarci per le balotellate o le cassanate e abbiamo deciso che prestare il proprio volto per l’estrema destra è normale?