Il Coronavirus era in Europa settimane prima che fosse rilevato il primo caso in Italia e che fossero attuate una serie di misure di contenimento del contagio. Non solo. Il virus è entrato nel nostro continente più volte e il primo focolaio sarebbe quello isolato a fine gennaio a Monaco, in Germania. Lo indica la mappa genetica pubblicata sul sito Netxstrain, fondato e diretto dal gruppo guidato da Trevor Bedford, del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle. La mappa, che ricostruisce una sorta di albero genealogico del virus aiutando ad analizzarne percorso e mutazioni, indica che il focolaio tedesco potrebbe avere alimentato silenziosamente la catena di contagi, al punto da essere collegato a molti casi in Europa e in Italia. Proprio oggi un team di medici ha pubblicato sul New England Journal of Medice una lettera nella quale si ricostruiscono le fasi del primo contagio in Germania. È stato un manager tedesco di 33 anni, e in buona salute, il primo europeo ad aver contratto il virus. L’uomo, infatti, ha iniziato ad avere febbre alta e tosse il 24 gennaio, un mese prima del ricovero del paziente uno italiano, il 38enne che si trova dal 21 febbraio scorso nel reparto di malattie infettive del policlinico San Matteo di Pavia. A contagiare il 33enne tedesco risultato positivo ai tamponi è stata una collega di Shanghai con cui l’uomo è entrato in contatto nel corso di un meeting aziendale, che si è svolto a Monaco di Baviera tra il 20 e il 21 gennaio.
IL VIRUS TRASMESSO DURANTE IL PERIODO DI INCUBAZIONE – La collega cinese era asintomatica quando ha visitato la Germania tra il 19 e il 21 gennaio. Dopo essere entrato in contatto con lei durante il meeting, nei giorni successivi il 33enne ha cominciato a non sentirsi bene. Il 24 gennaio ha iniziato ad avere tosse e febbre alta. Poi si è sentito meglio ed è tornato al lavoro il 27 gennaio. Secondo il team di medici, quindi, la trasmissione del virus è avvenuto durante il periodo di incubazione “quando i sintomi erano lievi e non specifici”. Solo sul volo di rientro in Cina la donna, infatti, ha iniziato ad accusare i primi sintomi. Il 26 gennaio ha fatto il test ed è risultata positiva. Il 27 gennaio, mentre l’uomo tedesco tornava al lavoro, la collega di Shangai ha informato l’azienda della sua malattia.
I PRIMI CONTAGI IN GERMANIA – È stata avviata la ricerca per risalire a tutte le persone che nei giorni precedenti erano entrate in contatto con la donna. Sottoposto ad accertamenti presso la Divisione Malattie infettive e della Medicina tropicale di Monaco, il manager tedesco è risultato positivo al test per il Coronavirus, anche se non presentava più i sintomi avuti nei giorni precedenti. Nei giorni successivi sono stati eseguiti altri test. Il 28 gennaio altri tre lavoratori tedeschi della stessa ditta si sono sentiti male e sono risultati positivi ai tamponi. Due erano entrati in contatto con la collega di Shanghai, mentre l’altro ha avuto un contatto diretto con il manager tedesco. Le prime cinque persone infettate sono state proprio dipendenti dell’azienda visitata dalla donna cinese. Alla fine di gennaio i casi in Baviera erano a quota sette. Un mese dopo, il 28 febbraio i contagiati sono saliti a 60. Ad oggi sono 349.
IL COLLEGAMENTO DELL’EPIDEMIA EUROPEA CON IL FOCOLAIO DI MONACO – “Il fatto che le persone asintomatiche siano potenziali fonti di infezione 2019-nCoV – scrivono i medici – può giustificare una rivalutazione della dinamica di trasmissione dell’attuale epidemia”. E il virus italiano sembra discendere da quello tedesco. A confermarlo proprio gli studi del gruppo guidato da Trevor Bedford, secondo cui “dal primo febbraio circa un quarto delle nuove infezioni in Messico, Finlandia, Scozia e Italia, come i primi casi in Brasile, appaiono geneticamente simili al focolaio di Monaco”. Sebbene la sede dell’azienda del 33enne tedesco fosse stata chiusa dopo la comparsa dei primi casi, infatti, i ricercatori ritengono che il focolaio di Monaco possa essere collegato a una buona parte dell’epidemia in Europa, compresa l’Italia. “Il messaggio importante – sottolinea Bedford – è che il fatto che un focolaio sia stati identificato e contenuto non significa che questo caso non abbia continuato ad alimentare una catena di trasmissione che non è stata rilevata finché non è cresciuta al punto da avere dimensioni consistenti”.