di Giorgio De Girolamo
Assistiamo ormai da giorni al panico generalizzato. Abbiamo visto svuotarsi gli scaffali dei supermercati e schizzare a cifre mai viste i prezzi di mascherine e disinfettanti sui siti dell’e-commerce. Abbiamo ascoltato al bar, a scuola o sul luogo di lavoro uno sterminato relativismo di opinioni in merito alla dilagante epidemia, alternato a frequenti grida al complottismo.
Il terrore è nelle case della gente, frammisto alla disinformazione che, amplificata dai social network, è cifra del nostro tempo. Ma anche la televisione e buona parte dei giornali sovraespongono il tema in modo spesso ingiustificabile, perché forse rispettivamente in cerca di audience e di clickbait (‘acchiappa click’, in italiano), quando le “copie vendute” sono ormai un lontano ricordo. Mentre lo Stato cerca invece di tappare i buchi scatenando quante più misure di contrasto riesca a pianificare.
Ma quanto può davvero l’uomo di fronte ad un tale fenomeno? Quanto può il progresso dei tanti Prometei sparsi nel villaggio globale di fronte a una, e neanche la più letale, dell’interminabile elenco delle epidemie della storia? Niente. Può, solo illusoriamente, attraverso le varie forme del potere, comunicare la propria presenza. Ma in casi come questo l’uomo è in balia della natura, una “canna al vento” come affermava Pascal.
Ma se vogliamo essere realisti questa epidemia al momento non sembra essere così catastrofica. “Siamo di fronte a un’infezione che nell’80% dei casi causa sintomi lievi e all’incirca il 95% delle persone guarisce senza gravi complicazioni”, ha riferito all’Agi Giovanni Maga, il direttore dell’Istituto di Genetica Molecolare del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Pavia. Effettivamente però spaventa molto più dei tre italiani che ogni giorno muoiono sul lavoro, o dei sei che muoiono invece sulla strada.
Supera addirittura, e di molto, il senso di emergenza generato dalla crisi climatica e dalle stime dell’Oms (Organizzazione Mondiale della Sanità) che ci ricordano che questa “provocherà ogni anno 250mila morti a causa di malaria e diarrea, stress da caldo e malnutrizione, soprattutto tra i bambini, le donne e tra la popolazione povera più vulnerabile” che si vanno ad aggiungere alle “7 milioni di persone che già muoiono ogni anno a causa dell’inquinamento dell’aria (solo in Italia 80.000), provocato soprattutto dall’insostenibilità del sistema dei trasporti e dalle fonti di energia domestica”.
Alla costruzione del rischio sociale, e alle conseguenze che ne seguono nei comportamenti precauzionali e di contrasto dei cittadini, contribuiscono però diversi fattori, tra i quali assumono particolare importanza gli spazi, i tempi e le ricadute sociali che la coscienza del rischio mette in luce in ciascuno di noi. Per Marco Bagliani, docente di Cambiamento climatico, strumenti e politiche all’università di Torino, “il parallelismo tra coronavirus e crisi climatica chiama in causa la psicologia dei disastri (…) L’epidemia del coronavirus si sviluppa su una scala temporale breve e rispetta i tempi tipici dell’attenzione, mentre il cambiamento climatico varia su una scala temporale più lunga. Parlando di spazi, l’epidemia ha una sua collocazione: le città, gli ospedali, una nave in quarantena, mentre la crisi del nostro pianeta non si sviluppa per forza sotto i nostri occhi”. Quindi la differente natura delle ricadute sulle vite dei singoli: “Mettersi in gioco per fermare il virus prevede un sacrificio a breve termine (limitare i viaggi, indossare le mascherine), provare a contrastare il cambiamento climatico invece significa rivedere gli stili di vita per sempre”.
In questi giorni stiamo facendo esperienza di come può essere trattata un’emergenza, se davvero esiste la volontà politica e mediatica di affrontarla. Possiamo considerare la repentinità nel tenere a terra i voli per qualche giorno, la prontezza nel chiudere le fabbriche e nel bloccare l’enorme macchina economica e produttiva (solo in Cina si è assistito ad un calo del 25% delle emissioni di CO2).
“Perché tanto i conti si faranno in fondo e troveremo una soluzione. Perché i soldi persi in qualche modo torneranno. Rischio crescita? Rischio recessione? Ma abbiamo forse un’alternativa?”. È questa la reazione di un mondo capitalista e globalizzato a una minaccia provocata dalla natura. Ma è invece molto più incoerente e schizofrenico l’atteggiamento che questo stesso mondo tiene di fronte alla principale minaccia da esso stesso creata: l’autodistruzione dovuta alla crisi climatica, riservata in gran parte alle generazioni future, ma preceduta già adesso da atroci e prolungate sofferenze. Nonché da sempre più ingenti danni economici irragionevolmente ignorati.
Sarà senza dubbio anche la natura spaziale e temporale dei due fenomeni a decidere le diverse reazioni, ma la tendenza a sottovalutare l’emergenza climatica in nome di sempre nuovi conflitti di comodo e contingenze straordinarie è ormai una costante delle potenze mondiali, Italia compresa; quelle stesse potenze che potrebbero guidare una palingenesi globale e una cosiddetta rivoluzione verde attraverso una mastodontica impresa federativa.
Forse è la cecità dei contemporanei, forse la sordità ai moniti di quella stessa scienza che produce le intelligenze artificiali e velocizza le nostre vite (e che dovrebbe quindi essere voce credibile per il sistema), forse ancora è il prevalere degli interessi di una manciata di plutocrati a generare tale inerzia. Non ho i mezzi per avanzare analisi fondate, fatto sta che la mia speranza è quella di vedere ben presto le forze che si stanno scatenando in questi giorni nel nostro paese concentrarsi sull’unica sfida che davvero merita il nostro pieno coinvolgimento fisico e morale. Perché non c’è vaccino che tenga alla crisi climatica, se non quello di scongiurare il punto di non ritorno. Dieci anni al massimo.
Se saremo in grado, rivoluzionando i nostri paradigmi e stili di vita, di “prevenire” senza dover solo essere costretti a inseguire cure palliative e rassicuranti, abbandoneremo una volta per tutte la carità per la giustizia. Sempre che ne saremo all’altezza.