Una pronuncia della Cedu riconosce la violazione dei diritti dei collaboratori scolastici che negli anni Novanta passarono dagli enti locali al ministero senza vedersi riconosciuta l'anzianità. I procedimenti per ottenere quei soldi ancora aperti sono tra i 5mila e i 10mila
Vent’anni per vedersi riconosciuti diritti (e soldi) negati. Ma ciò che lo Stato italiano aveva tolto, potrebbe restituirlo l’Europa. Una nuova sentenza della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo, riaccende la speranza dei cosiddetti Itp-Ata ex Enti locali, i 70mila lavoratori della scuola che alla fine degli anni Novanta, passando alle dipendenze del ministero dell’Istruzione, persero una parte della loro anzianità: i giudici di Strasburgo ribadiscono che il governo ha “barato”, cambiando a posteriori la legge per non perdere nei ricorsi in tribunale. Significa che i collaboratori scolastici potrebbero finalmente vedersi riconosciuto un risarcimento. Non tutti, soltanto quelli che hanno ancora un contenzioso aperto: tra i 5 e i 10mila, forse meno. Anche così, però, per le casse pubbliche sarebbe una stangata: lo Stato rischia di dover pagare decine di milioni di euro.
Per ricostruire la vicenda bisogna tornare indietro al 1999, quando viene riunito sotto un’unica amministrazione tutto il personale della scuola. I collaboratori scolastici che fino ad allora erano in forze a Province e Comuni, circa 70mila in tutta Italia, transitano al Miur. Sembra un provvedimento di buon senso, per loro si rivelerà una beffa. A differenza degli statali centrali, infatti, quelli periferici hanno gli scatti d’anzianità bloccati e in cambio percepiscono un “salario di produttività”: uniformare i contratti è complicato, per questo si decide di escludere la parte supplementare riconoscendo tutta l’anzianità. La norma entra in vigore, ma dopo un anno al Ministero dell’Economia si accorgono di aver sbagliato i conti: il saldo è negativo. Così il governo cambia le carte in tavola e a luglio 2000 blocca la ricostruzione di carriera, sempre però senza includere la parte accessoria. Doppia beffa, insomma.
I ricorsi partono immediatamente e con le norme violate lo Stato comincia a inanellare le prime sconfitte. Per questo, nel 2006 il governo decide di correre ai ripari modificando retroattivamente la legge, con una “interpretazione autentica”. Addio scatti di carriera: con la legge che adesso dà ragione allo Stato la maggior parte dei ricorsi, che magari in primo grado erano stati accolti, viene rigettata.
Da allora tanti di quei lavoratori hanno continuato la loro battaglia, spostando anche il fronte in Europa. Già in passato (tra 2011 e 2012) c’erano stati alcuni pronunciamenti favorevoli, che però non erano bastati a risolvere la questione. Anzi, nel 2019 la Cassazione sembrava averci messo una pietra sopra, stabilendo che il premio incentivante non andava incluso “in quanto privo di requisiti di fissità”. Del resto, lo diceva la legge (quella del 2006).
Ecco però l’ennesimo colpo di scena: reinvestita nuovamente della questione, la Cedu ha ribadito che l’intervento normativo del 2006 fu una scorrettezza. “Benché non sia precluso al legislatore di disciplinare, mediante nuove disposizioni retroattive, i diritti derivanti da leggi in vigore, il principio dello stato di diritto e la nozione di equo processo precludono l’ingerenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia”. Secondo i giudici europei, praticamente, l’Italia ha truccato le cause. C’è di più: la sentenza individua una violazione della Carta di Nizza, che è un trattato comunitario, e come tale prevale sulle leggi nazionali.
Alla luce dell’ultimo verdetto pare difficile che la Cassazione non debba rivedere la propria opinione (e comunque, in caso contrario, ogni giudizio sfavorevole potrebbe essere impugnato alla Corte europea, che condannerebbe lo Stato italiano a pagare). È una speranza per tutta la categoria. Il problema è chi potrà beneficiarne: un intervento generale del governo resta un’utopia, bisogna affidarsi ai tribunali, ma vale solo per i contenziosi ancora aperti (per le sentenze passate in giudicato o non impugnate non c’è più nulla da fare). Poche migliaia. Le cifre in ballo sono comunque enormi: l’ultima sentenza ha disposto risarcimenti totali per oltre 400mila euro per appena una ventina di lavoratori. Moltiplicato per i casi in sospeso, rischia di essere un salasso.