Nell’emergenza che stiamo vivendo ogni giorno che passa segna un peggioramento della vita in carcere, dettato dalla progressiva crescente segregazione dal mondo esterno e dall’angoscia nella quale le persone che vivono il contesto detentivo vengono lasciate. Vanno prese misure urgenti, come quelle richieste dall’associazione Antigone al primo ministro Giuseppe Conte e al ministro della Giustizia Alfonso Bonafede in una lettera loro inviata mercoledì pomeriggio. Ma facciamo prima il punto della situazione.

Il decreto governativo di ieri pomeriggio, che ha disposto tra le altre cose la chiusura delle scuole e delle università su tutto il territorio nazionale, tocca il carcere in un unico passaggio, prevedendo che “le articolazioni territoriali del Servizio sanitario nazionale assicurano al Ministero della giustizia idoneo supporto per il contenimento della diffusione del contagio del Covid-19”. Naturalmente ciò accadeva già nei giorni scorsi, ad esempio nelle tende montate davanti a vari istituti penitenziari delle zone più esposte nelle quali vengono controllati quei detenuti cosiddetti ‘nuovi giunti’ che devono fare ingresso in carcere.

Al di là delle disposizioni generali del governo, il Ministero della Giustizia si è attrezzato con una serie di misure specifiche contenute in note che si sono susseguite a partire dallo scorso 22 febbraio e che hanno riguardato tanto il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, responsabile della gestione delle oltre 190 carceri per adulti in Italia, quanto quello per la Giustizia Minorile e di Comunità, che gestisce i 17 Istituti Penali per Minorenni italiani. Un universo di circa 61.500 detenuti, cui si sommano le decine di migliaia di lavoratori che operano in carcere nei diversi ruoli – poliziotti penitenziari, educatori, medici, insegnanti e via dicendo – nonché i parenti in visita e i molti volontari senza i quali tante attività culturali, sportive, ricreative non potrebbero essere organizzate.

Oltre alle tende per i controlli, è stato disposto il blocco dei trasferimenti che interessano istituti penitenziari in zone a rischio, se non in casi eccezionali per motivi di giustizia, e il divieto di accesso di operatori o altre persone provenienti da alcuni comuni. Si lascia inoltre alla decisione dei singoli provveditorati, di concerto con le direzioni delle carceri, la possibile riduzione o sospensione delle attività che comportano contatti con persone esterne, comprese le attività lavorative dei detenuti, e la sostituzione dei colloqui con i famigliari con telefonate ordinarie o via skype. Sta invece al magistrato di sorveglianza valutare caso per caso se vadano sospesi i permessi premio o i provvedimenti di semilibertà (cioè le uscite diurne dal carcere).

Provvedimenti ragionevoli, che gli stessi detenuti – naturalmente impauriti dalla costrizione nell’ambiente carcerario e dalla scarsità di notizie su quanto sta accadendo fuori dal punto di vista sanitario – sembrano comprendere e non ostacolare. Provvedimenti però che vanno applicati con la massima attenzione alla specificità delle singole situazioni, così da non rischiare di andare oltre lo stretto necessario nella compressione di una libertà e di contatti con l’esterno già molto ristretti. Sentirsi abbandonati in carcere può essere drammatico. Eppure da alcuni istituti la nostra associazione ha avuto segnalazioni di chiusure ingiustificate rispetto all’obiettivo unico di limitare la diffusione del virus. Chiusure che, come segnalano pure il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute e la Conferenza dei Garanti territoriali nel loro comunicato congiunto, “incidono anche sui diritti delle persone ristrette e che sembrano essere il frutto di un irragionevole allarmismo che retroagisce determinando un allarme sempre crescente che non trova fondamento né giustificazione sul piano dell’efficacia delle misure”.

Come si legge ancora nel comunicato, “non sembrano essere stati assunti come primi urgenti provvedimenti, proprio negli Istituti che maggiormente hanno rivolto l’attenzione alla mera chiusura agli esterni, misure relative alla sanificazione degli ambienti, alla diffusione di norme igieniche, all’autodichiarazione di non aver avuto contatti possibilmente a rischio da parte del personale che entra in Istituto, alla predisposizione di strumenti che possano rilevare la temperatura corporea di tutte le persone che, per qualsiasi ragione, entrano nell’Istituto stesso”.

Tre sono allora le linee di indirizzo lungo le quali bisognerebbe muoversi adesso: innanzitutto, come si è detto, la supervisione centrale da parte del Ministero della Giustizia sulla gestione della crisi messa in atto dai singoli istituti di pena, affinché si blocchi immediatamente ogni eccesso restrittivo. In secondo luogo, l’apertura di tutti quei canali di contatto con l’esterno che non sono a rischio rispetto al contagio: le videochiamate, le telefonate ordinarie. Antigone ha scritto a Conte e Bonafede chiedendo loro di adottare immediatamente una misura urgente: quella di garantire a ogni detenuto il diritto di telefonare per almeno venti minuti al giorno, di contro ai dieci settimanali previsti dalla legge. È una misura dalla facile organizzazione, dai costi contenuti e dalla totale assenza di rischio. L’isolamento dagli affetti in un momento come questo può essere tragico. Ci auguriamo che le autorità ci diano ascolto al più presto.

Infine, bisogna agire sul numero di persone presenti dentro le mura del carcere. Le carceri per adulti ospitano oggi circa 10.300 persone in più rispetto ai posti letto ufficiali (che sono più di quelli realmente disponibili). È necessario mettersi al lavoro per trovare strategie di restringimento del flusso in entrata e di allargamento di quello in uscita. Gli ordini di esecuzione di sentenze che raggiungono persone in libertà, per le quali dunque non è stata ritenuta necessaria la custodia cautelare, possono aspettare ulteriormente. Le misure di semilibertà, che comportano un passaggio quotidiano rischioso dal dentro al fuori e viceversa, potrebbero in molti casi venire trasformate in affidamenti in prova al servizio sociale, una misura che si svolge interamente nella comunità esterna. Va varato un piano straordinario per mandare in detenzione domiciliare quei tantissimi detenuti che hanno un ridotto residuo di pena ancora da scontare.

Ieri pomeriggio, con l’emanazione del decreto governativo, Antigone ha chiuso il proprio ufficio e ha avviato il telelavoro. È senso civico cooperare tutti nella stessa direzione. Da oggi in molti possiamo forse comprendere un minimo di più sulla nostra pelle cosa significa sentirsi costretti in un luogo chiuso.

Community - Condividi gli articoli ed ottieni crediti
Articolo Precedente

Torino, a processo l’amministratore della società che gestisce i Club doc Juventus: “Ha sottratto 323mila euro dalle casse della Lefima”

next
Articolo Successivo

Omicidio Vannini, la Cassazione: “Se soccorsi fossero stati attivati in tempo si sarebbe salvato”

next