Se mi affaccio alla finestra o se esco a passeggiare in città tutto sembra normale. Solo un po’ più sparuto: manca qualche banco al mercato, qualche bar è chiuso, ma trovare qualcuno con la mascherina, qua a Treviso, che pure è uno dei cluster più numerosi del Veneto, è come cercare un ago in un pagliaio. Qua, nella provincia più (inconsciamente) calvinista d’Italia, dove il lavoro è valore etico e religione condivisa, il virus viene vissuto, prima ancora che come agente patogeno, come una bestemmia, o un’eresia.
Più che indossando la mascherina, allora, qua si reagisce “fracandose la bareta”: calcandosi il berretto sulla fronte e proseguendo come se nulla fosse. Tocca lavorare. E va bene così: molto più dignitoso di certe uscite di chi dovrebbe rappresentarci, che farneticava di cinesi che mangiano topi vivi.
Io invece non lavoro, mio malgrado, o, meglio non lavoro come prima. Non lo fa il poeta e non lo fa l’insegnante. Tutti i miei impegni artistici pubblici sono saltati: in Italia e all’estero. In Italia gli eventi sono stati cancellati, all’estero, sia pure con tatto estremamente professionale, mi hanno ovviamente annullato l’ingaggio. Vengo dal cuore dell’epidemia: arrivassi anche fin là, mi metterebbero in quarantena. È saltato il Campionato Europeo di Poetry Slam, che doveva tenersi a Milano, sono stati annullati praticamente tutti gli eventi artistici e universitari a cui dovevo partecipare.
Bene, penso: più tempo per scrivere, più tempo per leggere, più tempo per riflettere. Mi pare un atteggiamento saggio, ma poi sono triste e sento intorno a me un vuoto affollato, brulicante, che mi costringe, che mi assedia. La poesia è sinonimo di comunità, di condivisione, per uno come me, per il quale la poesia è azione e performance, una situazione del genere è un incubo, come se qualcuno mi avesse legato e imbavagliato. E poi mi avesse lasciato là, dove mi aveva trovato, a vedere l’effetto che fa, tanto per citare un noto collega.
Sembra che non stia accadendo nulla, eppure sembra anche che stia accadendo tutto. Proprio ora. La sensazione è chiara, ma non ho le parole per dirla. Mi domando, il poeta si domanda: abbiamo una lingua capace di dire l’epidemia? Come potremo sconfiggerla, se non sapremo dirla?
Poi c’è la scuola. Io non entro in aula da dopo Carnevale e probabilmente non ci rientrerò fino a fine marzo, ad essere ottimisti della volontà. A voler essere pessimisti della ragione, invece, forse soltanto a fine aprile. Se il nostro sistema sanitario reggerà. Quello eccellente come quello pessimo, perché il virus ci pone di fronte a un dato che era chiaro anche prima e cioè che un sistema sanitario non si regge sulle eccellenze, ma su una omogeneità di fondo che garantisca ovunque i medesimi livelli di cura, o quello che potremmo chiamare un effetto domino, in caso di emergenze, travolgerà tutto.
Non si sostiene un’economia in crisi puntando sulla sola ‘domanda solvibile’ e ignorando quella ‘sociale’, non si risolve una crisi sanitaria appoggiandosi sulle sole eccellenze, quand’anche e laddove ci siano.
Nel frattempo io mi sto arrabattando come posso, con la celeberrima didattica a distanza, che è una sorta di coniglio magico tirato fuori, da un momento all’altro, dal cilindro del Ministero. Per carità, non è un problema di strutture: mi sentirei di scommettere che il 90% di insegnanti e allievi italiani sono connessi a Internet, hanno un Pc o uno smartphone per fare tutte le conference call didattiche che programmeremo – e magari all’inizio sarà anche stimolante.
Non parlo di questo, parlo del fatto che la scuola è – esattamente come la poesia – sinonimo di comunità, di interazione, di condivisione reale di un’esperienza. Con gli allievi ci parliamo e io spiego, rispondo a domande, faccio apparentemente le medesime cose che faccio in aula. Ma non ci sono. Non ci sono io e non ci sono loro. Non condividiamo lo stesso spazio. Siamo lontani. Una somma di solitudini non fa un gruppo, si limita ad ammucchiare solitudini. E mi rendo conto che lo strumento più essenziale di ogni didattica non è un computer, una linea internet, un videoproiettore, ma l’aula. Lo spazio fisico condiviso.
Non c’è scuola senza aule e finché potremo essere in aula ci sarà scuola. Ovunque, anche al centro dell’Amazonas, dove non arriva neanche il segnale Gps. E parlo del fatto che è un errore affrontare il problema scuola come se fosse un problema soltanto didattico, mentre è evidentemente, prima di tutto, un problema di welfare.
La didattica a distanza può forse essere un valido rimedio per le università, per le classi delle superiori, ma non è lo stesso per gli allievi delle medie inferiori, della scuola primaria o dell’asilo. Che sono la maggior parte della popolazione scolastica italiana. Intanto perché per quegli allievi la didattica prevede molte più attività comuni e poi, e qui sta il problema del welfare, perché quegli allievi, pur partecipando ipoteticamente a delle attività telematiche, resteranno affidati alle loro famiglie.
Mi rendo conto che il problema delle attività Pcto (“percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento”) e delle prove Invalsi per gli esami di maturità e delle date e delle modalità degli esami stessi siano faccende importanti, ma credo che siano facilmente risolvibili. I nostri ragazzi non avranno grandi conseguenze nella loro vita futura anche se faranno la maturità senza Invalsi e Pcto, anche se la faranno con i loro insegnanti interni, anche perché il valore reale dei loro diplomi sul mercato del lavoro, in quanto tali, è spesso assolutamente nullo.
Ma il problema più grande è che se collassa la scuola collassa un pezzo decisivo del welfare della nostra nazione. Ché la scuola è con la sanità una struttura portante di ogni nazione avanzata. Ora è tardi e magari è anche inutile parlarne, ma non fa male ricordarlo a una nazione che, più o meno senza battere ciglio, sopporta che buona parte delle strutture in cui si recano giornalmente i suoi figli siano fatiscenti, con condizioni di sicurezza precarie, che accetta che coloro a cui li affida siano pagati male, peggio di chiunque in Europa, illudendosi che questo non abbia effetti anche sulla qualità dell’insegnamento che verrà dato agli studenti.
Certo ne dibatteremo, certo lo stiamo già facendo, ma il virus passerà e fino al prossimo nessuno ne parlerà più. Ci scommetto. Perché infine, probabilmente, il virus vero siamo noi, o meglio la nostra ormai inguaribile solitudine, che adesso chiamiamo libertà individuale. Che probabilmente c’era anche prima e ci sarà anche dopo. L’aveva capito bene Leopardi tanto tempo fa: nessuno si salva, se non ci si tiene per mano. Ma a scuola La Ginestra, ancora oggi, la si legge poco.