La pandemia di Coronavirus ha comprensibilmente catalizzato l’attenzione collettiva e i drammatici bollettini di guerra su contagiati e deceduti sono seguiti incessantemente evocando le domeniche di mezzo secolo fa con le radioline incollate all’orecchio per ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”.

Il costante aggiornamento è garantito dal martellante ritmo di servizi televisivi e dal ribollire dei siti web che proiettano immagini, grafici e statistiche. Il clima di ragionevole allarme ha persino fatto riscoprire l’utilità dell’igiene personale e trasformato il semplice lavarsi le mani in cautela straordinaria. L’invito a non uscire di casa e a limitare – complice il metro di distanza – affettuosità di ogni sorta o anche semplici relazioni interpersonali.

Le tecnologie – Internet in primis – hanno così guadagnato il ruolo di contesto succedaneo della nostra vita quotidiana. Il telelavoro, la didattica a distanza, gli incontri virtuali grazie a webcam e opportunità di comunicazione evoluta, in qualche caso persino la telemedicina: improvvisamente si è scoperto che “certe cose” si possono fare anche senza raggiungere l’ufficio e la scuola, quasi prima d’ora fosse impensabile (o addirittura sacrilego) sfruttare le possibilità messe a disposizione dal progresso.

E quel che è terribile è il vedere la malcelata ritrosia di parecchie realtà ad accettare un nuovo train de vie, a prendere atto che – come diceva il “dottor Frankenstine” nell’immortale pellicola di Mel Brooks – “si può fare”. Si innesca qui una riflessione. C’era bisogno della peste bubbonica per capire che certe attività potrebbero essere svolte “comodamente seduti a casa nostra” come recitava un vecchio slogan pubblicitario? Nello stupore generale si è affacciato il “lavoro agile”, ha fatto capolino lo “smart working”. Un sistema che dovrebbe e potrebbe rappresentare la normalità è stato spacciato addirittura come soluzione rivoluzionaria.

Nel 1989 mi permisi, giovane capitano (anche se già con cinque anni di quel grado sulla spallina) in servizio all’Ufficio Informatica del Comando Generale Guardia di Finanza, di proporre l’impiego a distanza di risorse qualificate per le attività di coding (o “programmazione” come si diceva a quei tempi). Quel genere di lavoro poteva essere svolto anche in un luogo diverso e le connessioni telematiche (ridicole se paragonate alle odierne autostrade digitali) permettevano di sfruttare professionalità dislocate altrove senza che vi fosse alcuna differenza con le medesime prestazioni garantite nella stanza a fianco o in fondo al corridoio. L’allora vicebrigadiere Gianni Vigna, ad esempio, era un prodigio e meritava – almeno a mio avviso – di essere messo nelle migliori condizioni per esprimere le sue capacità. Non un favoritismo (in un ambiente dove non sono mai mancati trattamenti di riguardo a quelli il cui unico pregio era avere un valido “sponsor” alle spalle), ma una razionale applicazione del buon senso. La serenità dell’interessato avrebbe assicurato una produttività di gran lunga superiore con enormi vantaggi per l’Amministrazione. Due le possibilità: farlo lavorare da casa (venni fulminato per l’averlo solo pronunciato) o assegnarlo logisticamente al Comando GdF più vicino alla sua famiglia e utilizzarlo dalla provincia di Savona come se nulla fosse.

Inutile dire che la cosa non andò in porto e il brillante sottufficiale, dopo un pesantissimo periodo come pendolare settimanale con tempo e denaro perso lungo i binari della linea ferroviaria tirrenica, riuscì dopo qualche anno a ottenere il trasferimento a Genova per assolvere altre mansioni presso il Nucleo di Polizia Tributaria. L’insipienza del mio diretto superiore (la cui gestione del personale è stata, fra l’altro, segnata da alcuni suicidi di militari dipendenti) fece perdere alle fiamme gialle un talento sbalorditivo che solo marginalmente ha potuto regalare alla GdF quel che era effettivamente in grado di offrire. Ça va sans dire quel capo ufficio ha successivamente raggiunto l’apice della carriera… Sicuramente tanti altri hanno combattuto analoghe battaglie nei rispettivi contesti lavorativi, consapevoli dell’evidente bontà di certe metodologie di impiego delle risorse umane.

Nonostante le tante proposte che nel tempo si sono susseguite e sono cadute nel vuoto spegnendo la voglia di proporre qualunque cambiamento evolutivo, le “stanze dei bottoni” – quelle dove si decide la sorte di qualsiasi organizzazione – non hanno mai preso seriamente in considerazione l’opportunità. O, meglio, lo hanno fatto solo in un’ottica ben lontana dalla auspicabile politica che metta d’accordo obiettivi aziendali e aspettative individuali. Lungi dal prendere in considerazione il wellness dei dipendenti, c’è chi ha inserito giornate di “lavoro da casa” andando a limare le retribuzioni (quasi le attività a domicilio valessero di meno) e chi invece ha sostituito il prestatore d’opera “nazionale” con un suo omologo fuori confine che – come nel caso dei call center – costa un quinto del già misero stipendio riconosciuto al “centralinista” nostrano. Addirittura c’è chi, in piena emergenza coronavirus, ammette a fruire dello “smartworking” solo chi non ha ancora giorni di ferie relative all’anno precedente.

Se la sensibilità umana non rientra tra i canoni della buona gestione, stupisce invece l’oggettiva impreparazione di imprese, enti pubblici e istituzioni dinanzi al cambiamento ormai disciplinato per legge. Quando si legge che “si stanno organizzando” o si constata che “i sistemi informatici non sono predisposti” o “l’architettura di rete non poteva prevedere un così elevato numero di utenti esterni”, si è costretti a prendere atto che anche le “persone giuridiche” soffrono di gravi patologie invalidanti. Il morbo dell’ignoranza si è silentemente insinuato alla faccia della pervasività del progresso tecnologico e soprattutto procedurale. Il vaccino della cultura, ahinoi, sembra non funzionare.

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