Diritti

8 marzo – Triste notizia: non c’è niente da festeggiare. Soprattutto per le donne trans

Questo non è il solito commento sull’8 marzo, ma una premessa mi tocca farla. Molti degli uomini (e delle donne) che si professano politically uncorrect aspettano con ansia l’8 marzo per dirci che non serve una festa o che – soluzione geniale al sessismo dilagante – dovrebbe esistere anche una festa dell’uomo. Cari, triste notizia: non c’è niente da festeggiare.

L’8 marzo è la Giornata Internazionale delle Donna, una sorta di giro di boa in cui ogni anno ci tocca fare i conti con la situazione dei diritti delle donne nel mondo, con i gap ancora da colmare e con la ricerca dell’ennesima dose di pazienza per spiegare che il femminicidio non è uguale all’omicidio. È forse per questo che, per tirarci su, ci regalano una mimosa. Come a dire “tieni, visto che tutto il resto è ‘na chiavica, pigliati almeno questo dono floreale”.

Insomma, oggi è una giornata in cui bolle in pentola un po’ di rabbia, per tutte noi. E intendo proprio tutte. Sì, perché anche quando uno pensa che in quanto discriminate dovremmo fare fronte comune, c’è sempre qualcuna che dice “no, lei no”. Perché non è abbastanza così o cosà. A subire gli attacchi più feroci sono le donne transessuali e transgender. Le femministe radicali trans-escludenti (Terf) non considerano le donne trans parte del movimento in quanto, non essendo nate con cromosomi XX e organi genitali femminili, non potrebbero comprendere la maggior parte delle istanze messe in campo dalle donne. Così l’uomo, per le Terf in questione, sarebbe sempre carnefice e nemico, per sua natura e anatomia, ed è per questo che le donne transgender lo sono altrettanto: difetto di nascita. Si sono gustate per un po’ il privilegio dell’essere maschi e questo è un marchio.

Il fatto stesso di possedere il pene, inoltre, le renderebbe dei potenziali stupratori (che poi sarebbe -trici. Lo so, è noioso, ma cercate di starmi dietro). In pratica le Terf fanno lo stesso giochino di chi giustifica la violenza maschile con frasi come “gli uomini non ne possono fare a meno”. Nessuna colpa o responsabilità: i maschi sarebbero biologicamente predisposti a essere predatori. C’è un cortocircuito, riuscite a vederlo? Riassunto: qui si sta dicendo che l’oggettività biologica dell’essere donna definirebbe il senso stesso del combattere le battaglie femministe.

Come prego? Fermi tutti! Dunque, abbiamo chiesto per sessant’anni di non essere giudicate solo per le nostre vagine e la nostra capacità di partorire, bensì per la necessità e l’urgenza delle nostre richieste… e poi? Finiamo col dire che solo chi ha utero e vagina è degna di essere una donna? Facciamo il gioco del patriarcato: discriminare in base al sesso.

Non sappiamo a oggi quante donne transgender e transessuali ci siano in Italia, sappiamo però quante ne sono state uccise a livello globale tra il settembre 2018 e il settembre 2019: 331 secondo l’organizzazione Transgender Europe. Quasi una al giorno. E c’è anche un grosso però: all’appello mancano tutte le donne transgender che non hanno avuto modo di cambiare il proprio nome e sesso sui documenti d’identità. Che non sono mai diventate ufficialmente donne agli occhi dei governi e che dunque sono morte da persone diverse, come fossero state altro da sé.

Pochi mesi fa, vicino a Verona, sull’autostrada A4 è morta Marisol. Pare sia stato un cittadino svizzero ad investirla, ma il processo è ancora in corso. Ho cercato la notizia e alcune testate hanno titolato “trans muore travolto da un’auto”. Marisol si chiamava Ivan e per qualcuno tale era rimasta. Un po’ perché mezza femmina, un po’ perché sex-worker, un po’ perché immigrata.

Non valeva la pena sforzarsi di usare le parole giuste. Ecco perché oggi abbiamo bisogno del femminismo intersezionale: nessuna battaglia sta in piedi da sola. Non siamo estranee rispetto alle oppressioni degli altri.

Le donne trans vivono nella stessa nostra trincea quotidiana, fatta di misoginia e abusi di ogni tipo. In più, però, soffrono anche per la transfobia e l’omofobia, unitamente all’invisibilità che spesso le colpisce a livello lavorativo, sanitario e sociale. Allora facciamo un passo indietro. Facciamo finta sì, solo per una volta, che oggi sia una festa. E come ogni festa che si rispetti, facciamoci un regalo: accogliamo al nostro fianco chiunque senta di appartenere a questa lunga e faticosa battaglia per i diritti e la parità delle donne. Ci servono teste, e idee, e mani, e sentimenti. Solo così vinciamo. Prima o poi.