Economia

Coronavirus, la capo economista di Citi: “La globalizzazione era già in stallo da un decennio. Ridurre la dipendenza dai fornitori cinesi? Le aziende Usa l’hanno fatto, ma non elimina i rischi”

Catherine Mann, ex capo economista Ocse, spiega che finita l'emergenza le aziende europee potrebbero seguire l'esempio di quelle Usa che a causa delle guerra dei dazi hanno rivisto le catene di distribuzione e rilocalizzato alcune produzioni. Ma la scelta dipende da tanti fattori, dal costo al tempo necessario per portare le merci sul mercato. In ogni caso, avverte, meno integrazione globale vuol dire meno produttività e salari più bassi. "Così le disuguaglianze all'interno dei Paesi aumentano"

Ora non si può più rimandare. L’epidemia di coronavirus ha messo a nudo l’estrema vulnerabilità delle catene di fornitura globali e, passata l’emergenza, costringerà le aziende europee a rivedere le loro analisi costi-benefici. Conviene ancora importare dalla Cina buona parte delle materie prime tessili, della componentistica elettrica, dei macchinari e dei principi attivi farmaceutici, se il rischio è quello di ritrovarsi con i container fermi nei porti? Catherine Mann, capo economista globale di Citigroup dopo aver ricoperto lo stesso ruolo all’Ocse, parlando con ilfattoquotidiano.it spiega però che la risposta non è semplice come sembra. E a chi si chiede se il virus segnerà una battuta d’arresto dell’interconnessione globale risponde che lo stallo della globalizzazione non è una novità: è iniziato un decennio fa. E non è una buona notizia perché “con meno globalizzazione la produttività ristagna e aumenta la disuguaglianza“.

“La globalizzazione era già “in ritirata” quando il coronavirus si è diffuso”, sintetizza l’economista. Gli indicatori degli scambi di merci e dei flussi finanziari tra Paesi, come evidenzia un report firmato da Mann nell’agosto dello scorso anno, mostrano infatti che dopo un picco raggiunto nel 2007-8 il processo di integrazione si è fermato. “E l’anno scorso, a causa delle guerre commerciali, il volume del commercio mondiale è calato“. Per le aziende statunitensi il punto di svolta è stata dunque l’escalation dei dazi tra Usa e Cina prima dell’accordo di gennaio: “Nel breve termine hanno trovato fornitori alternativi, per esempio a Taiwan e nel Vietnam. Si è anche visto un aumento degli approvvigionamenti da Messico e Canada. Poi hanno anche rimesso in discussione la localizzazione dei loro stabilimenti operativi”. Ora che diverse imprese italiane ed europee sono in difficoltà perché a corto di componenti e materie prime, “potranno fare valutazioni simili”.

Troppo semplicistico però, secondo Mann, affermare come ha fatto il ministro dell’Economia francese Bruno Le Maire che dopo l’emergenza “dobbiamo diventare meno dipendenti dalla Cina”. Le decisioni su dove produrre e dove comprare materie prime e componenti dipendono da tanti fattori: “Dove si trova la tua domanda, il costo di produzione che comprende le economie di scala, il tempo necessario dall’ideazione del prodotto alla commercializzazione (time to market), il costo dei controlli di qualità” sulle componenti importate. Un insieme di aspetti, insomma, che in alcuni casi può far optare per un accorciamento della catena produttiva e un “avvicinamento” della produzione. “Per esempio il fast fashion ha spostato la produzione fuori dalla Cina riportandola in Europa per ridurre i tempi di consegna. Ma se un’azienda francese vende sul mercato cinese resterà a produrre lì”. La convenienza, insomma, varia caso per caso. E non va dimenticato che “le catene di fornitura domestiche non sono meno rischiose di quelle globali. Pensiamo all’incidente di Fukushima, che ha causato uno choc significativo alla produzione e all’approvvigionamento dell’industria dell’auto in Giappone e ha avuto conseguenze anche oltreconfine”.

A chi auspica una “ritirata” della globalizzazione in nome della sovranità nazionale Mann replica che quando la liberalizzazione del commercio e dei servizi ristagna la produttività cresce poco, i salari si adeguano e smettono di crescere e il risultato, in assenza di politiche mirate, è che le disuguaglianze aumentano. E’ quello che è accaduto da quando il processo di integrazione globale ha smesso di fare passi avanti: “Con meno globalizzazione, la crescita della produttività si è fermata e la disuguaglianza all’interno dei singoli Paesi è peggiorata. Parlo di disuguaglianza di reddito ma anche di disuguaglianza tra i più adulti – che stanno meglio – e i giovani. Questo però non dipende dalla globalizzazione, è il risultato del fallimento della politica nel redistribuire in modo appropriato i guadagni“. Il punto insomma è riuscire a distribuire equamente la “torta”. Ma con meno globalizzazione la torta non si ingrandisce e la situazione non fa che peggiorare.

Quanto alle conseguenze di medio termine del coronavirus, la portata dell’impatto non è ancora prevedibile. Quel che si può immaginare è che “almeno per il commercio dei beni ci sarà un rimbalzo positivo una volta che le fabbriche riaprono, sia in Cina sia negli altri Paesi collegati nella catena del valore. Ma per per quanto riguarda i servizi, come il turismo, il business perso non sarà recuperato e l’andamento futuro dipenderà dal comportamento dei consumatori“. Il problema è che nel frattempo “la perdita di ricavi potrebbe avere effetti a cascata sul fatturato delle imprese, l’occupazione, la capacità di ripagare i debiti e quindi le banche“. Le misure allo studio dei governi europei puntano proprio ad evitare questo effetto domino, mentre le banche centrali fanno quel che possono per evitare restrizioni del credito. “Ma le politiche monetarie non possono far nulla contro la paura che fa calare i consumi”.