Milano, ore 1 di venerdì notte. Per tornare a casa da lavoro (a piedi perché ormai i mezzi pubblici li evito da un po’) mi ritrovo di fronte a una scena che mi ha sorpreso e, allo stesso tempo, deluso. Migliaia di persone strette tra i tavoli o ammassate lungo le vie della movida meneghina di Corso Como e Moscova. Baci, abbracci, strette di mano. Della più volte raccomandata distanza di sicurezza per cercare di evitare il contagio nemmeno a parlarne.
Ci sono ragazzini di nemmeno 18 anni, gli stessi che da giorni non vanno a scuola proprio per evitare di essere colpiti dal virus, ma anche persone più mature: 30enni, 40enni. Tutti lì a godersi la Milano da bere. Una settimana prima sono passato dalle stesse vie alla stessa ora e in coda per un cocktail erano veramente in pochi.
Le conferme arrivano il giorno dopo. Le foto dei Navigli traboccanti di ragazzi in attesa dello spritz hanno fatto di nuovo parlare e discutere. È possibile che le abitudini e le esigenze personali, anche in una situazione di pericolo per noi, per i nostri familiari e amici, oltre che per la collettività, abbiano la meglio sul raziocinio? Sì. Ce lo dimostra la reazione di centinaia di persone che, tra la diffusione della bozza di decreto con il quale il governo ha deciso di limitare allo stretto necessario le uscite da Lombardia e altre 14 province e la sua messa in atto, hanno ben deciso di mettere qualche vestito in valigia e fuggire dalla regione.
Per andare dove non si sa, a fare cosa sì: scappare da un nemico invisibile, che li ha terrorizzati senza farli riflettere sul fatto che, così, rischiano di contagiare familiari e amici in regioni dove, magari, il sistema sanitario non è così pronto ad affrontare l’emergenza come quello lombardo.
E dopo essermi infuriato di fronte a queste immagini, mi sono chiesto: ma cosa ha fatto la politica per contrastare certi comportamenti? Assolutamente niente: la reazione irrazionale di parte degli italiani di fronte al diffondersi del coronavirus va a braccetto con la schizofrenia di coloro che questa emergenza sono chiamati a fronteggiarla in prima linea.
Primo esempio, il più eclatante: la campagna #Milanononsiferma. In un momento in cui l’élite dei nostri medici sta cercando di ottenere sempre maggiori informazioni su un nemico sconosciuto fino a qualche settimana fa, implorando la popolazione di limitare spostamenti e luoghi affollati, il sindaco di Milano, Giuseppe Sala, pensa bene di aderire alla campagna mediatica che, in sostanza, ha l’obiettivo di dire a tutto il mondo che il capoluogo meneghino, nonostante le difficoltà, continua a vivere come prima, pronto a “tornare a dare il benvenuto” ad altri visitatori. Il gesto più eclatante, però, lo compie il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, che folgorato sulla via di Milano si erge a paladino dell’antiallarmismo, decidendo di partecipare all’aperitivo organizzato dal partito sui Navigli per dire ‘no’ a una Milano che si ferma.
Una scelta senza senso, per il semplice fatto che cerca di dettare uno stile di vita senza avere la più pallida idea dell’avversario che ci troviamo a fronteggiare. Il segretario Pd è poi risultato positivo al virus (gli auguriamo una pronta e rapidissima guarigione).
Sul fronte opposto c’è il governatore lombardo Attilio Fontana. Anche lui, in un momento in cui il numero dei casi rilevati a Milano era ancora limitato, con le disposizioni dei medici che stavano già circolando, ha pensato bene, dopo la notizia del contagio di una sua stretta collaboratrice, di apparire in video indossando una mascherina protettiva e finendo, inevitabilmente, sulle prime pagine di tutti i giornali del mondo. Aveva ragione, col senno di poi? No, perché l’allarmismo generato non ha fatto altro che rischiare di provocare un primo esodo dalle zone a più alto contagio verso regioni dove ancora non si registravano casi.
E poi c’è Luigi Di Maio che, nel pieno della crisi, pensa bene di fare delle limitazioni (sacrosante) imposte dagli altri Paesi nei confronti di chi proviene dall’Italia una battaglia. Dimenticandosi che proprio il nostro governo è stato uno dei primi a bloccare i collegamenti aerei con la Cina (giustamente), all’inizio del’epidemia. Ora Di Maio si scaglia contro tutti quei Paesi che oggi hanno bloccato i collegamenti con l’Italia o che non permettono alle navi con a bordo italiani di attraccare nei loro porti, se non dopo esaustivi controlli sanitari.
Ministro, quella degli altri governi non si chiama “discriminazione”, ma buonsenso. Quello che è mancato a una parte dei nostri concittadini e della nostra politica.