Ambiente & Veleni

Coronavirus, le piste da sci piene sono un fermo immagine da non dimenticare: il turismo se ne frega dell’etica

Spiace dover insistere sul solito concetto, per di più in tempi cupi come questi, ma il colpo di coda del distrut-turismo è un fermo immagine da non dimenticare: le code di sciatori davanti agli impianti e ai locali sulle piste dell’intero arco alpino. E’ più di una follia aver consentito che le stazioni sciistiche restassero operative fino all’ultimo week-end, in piena conclamata emergenza da coronavirus, richiamando migliaia di appassionati soprattutto dalle regioni del nord Italia, complice una nevicata d’inizio marzo.

Una delle testate d’informazione più sensibili del grande comprensorio trentino, Il Dolomiti, ha addirittura documentato di offerte di settimane bianche sfacciatamente indirizzate al mercato dei “quarantenati”, con volantini intitolati: “Niente scuola, andiamo tutti a sciare!”. La logica, se di tale si può ancora parlare, è quella della Presidente dell’Associazione nazionale esercenti funiviari Valeria Ghezzi, titolare delle Funivie seggiovie San Martino, in quel di Castrozza. “La neve è più forte del coronavirus” ha dichiarato la rappresentante degli impiantisti italiani, chiedendo alla provincia di Trento persino di non far applicare il divieto governativo sulla limitazione a un terzo della capienza di funivie e cabinovie.

La signora in questione, milanese d’origine, che potrebbe ben figurare accanto al Sindaco Sala 1 (quello della campagna di pochi giorni fa per riaprire i bar la sera), si era già distinta per la difesa di un’esibizione delle jeep sulle sue piste, liquidando le proteste della Forestale relative ai danni ambientali di un analogo raduno estivo, come “stime gonfiate per puro allarmismo” (sic!). Con tono appena più sfumato, ancora tre giorni fa il Presidente di Dolomiti Superski, Sandro Lazzari, ribadiva la volontà di tenere aperto il consorzio da 140 milioni di “beep” a stagione (sarebbe a dire di singoli passaggi davanti ai tornelli): “Intendiamo salvaguardare l’immagine positiva che abbiamo costruito in tanti anni di lavoro e far sì che gli sciatori possano trovare un servizio di altissima qualità”.

Bla-bla quanto meno assurdi, purtroppo, dopo che invece operatori turistici meno avidi e più scrupolosi, da Cogne alla val di Sole, avevano deciso autonomamente di chiudere le attività, invitando le autorità locali a intervenire con maggiore determinazione. Magari, tra qualche ora, cambieranno idea anche gli oltranzisti della neve ammazza-virus: in fondo, persino Beppe Sala si è finalmente convinto che l’emergenza spritz, contro cui aveva lanciato la campagna #Milanononsiferma e fatto riaprire i bar la sera, è poca cosa rispetto ai danni alla salute pubblica da “effetto droplet”. Le goccioline virali sono parenti, persino sul piano lessicale, delle bollicine dell’aperitivo: spritzen in tedesco vuol dire spruzzare…

Aver così spinto oltre ogni soglia etica gli interessi legati al turismo, in fondo, è stato soltanto l’ultimo atto di culto, post-industriale e post-terziario avanzato, di quella che Benjamin definì la religione del capitalismo. Il problema principale adesso è riuscire a rendersi conto che forse non potranno mai più tornare i dieci milioni di turisti l’anno a Milano o i 140 milioni di ‘beep’ a inverno sulle Dolomiti, con gli incalcolabili danni per l’ambiente connessi. Oltretutto il turismo si fonda sul lavoro temporaneo e sulla più sfrenata precarizzazione, e non saranno certo le grandi catene alberghiere o cinematografiche a pagare il conto più salato ma i camerieri e le donne delle pulizie. Ciò vale esattamente per altri settori colpiti subito dall’emergenza Covid-19, come lo spettacolo: non ci rimetteranno la Scala o il Piccolo, con i pingui finanziamenti pubblici che tengono in piedi questi teatri, ma le comparse, i mimi e le maschere.

Forse dovremmo tutti sforzarci d’immaginare un nuovo modello di sviluppo e una nuova possibile armonia sociale, ma questo richiede uno sforzo tale che si può paragonare appunto solo a una vera e propria conversione ‘religiosa’. Lo spiegava molto bene già un secolo fa Gustav Landauer, singolare figura di rivoluzionario che affascinò proprio Benjamin, e anche Kafka. In questi giorni di tempo sospeso, provate a rileggere il suo Appello per il socialismo del 1911 (riproposto nel 2012 da Elèuthera, a cura di Gianfranco Ragona, negli scritti di Landauer “La comunità anarchica”), misuratene la lucidità in materia di migrazioni, di barbarie nordamericane, di omologazione culturale, di fine dei popoli, di rifondazione dell’umanità e di speranze. Speranze che si alimentano soltanto a partire “dallo spirito degli individui, che ha bisogno di libertà e porta dentro di sé la libertà”.