La giornalista Costanza Rizzacasa D’Orsogna affronta il tabù del fat shaming, cioé del bullismo contro le persone grasse, e della violenza verbale che lo accompagna. Il romanzo racconta il rapporto di Matilde con i suoi chili di troppo, tra bugie dipendenze e autolesionismo
Il 29 gennaio 2020 il deputato del Partito democratico Filippo Sensi ha tenuto un discorso che ha fatto molto discutere. L’onorevole ha infatti parlato di obesità e bullismo, facendo riferimento alla sua esperienza personale (ha raccontato di essere stato obeso e di aver combattuto con il peso per tutta la vita) e allo stigma che ancora oggi circonda le persone grasse. Sensi ha persino citato “Non superare le dosi consigliate” della giornalista Costanza Rizzacasa D’Orsogna (Guanda, 249 pagg, € 18) che si è occupata nel suo ultimo libro di questo argomento. Grazie al loro contributo, termini come body shaming e fat shaming, cioè il bullismo contro i grassi, sono entrati nel linguaggio comune. La giornalista, infatti, raccontando il difficile rapporto che ha avuto con il suo corpo sin da bambina, quando la madre le dava le compresse di lassativo a cena pensando di farle perdere peso, è riuscita a sdoganare un tema che sembrava essere ancora un tabù.
In questo caso, la protagonista del libro è Matilde, che ha una mamma bulimica che passa le giornate a vomitare, invece lei ha cominciato a ingrassare quando ne aveva sei. A scuola elemosinava biscotti, a casa rubava il pane. Ottanta chili a sedici anni, a diciotto quarantotto. Matilde va in America a studiare, si sente una donna affermata, ma ciò che le crea profondo disagio la accompagna persino oltreoceano. Finché, dopo la morte della madre, il tracollo finanziario del padre e una relazione burrascosa, supera i centotrenta chili, così decide di chiudersi in casa per tre anni, mentre sui social si finge normale. La sua vita trascorre tra la volontà di non deludere le aspettative altrui, l’autolesionismo, le bugie e le dipendenze. “Non c’è un problema che un farmaco non curi, mamma lo dice sempre. A casa nostra non si parla, si prendono medicine. Così lei mi dà il Dulcolax ogni sera perché sono una bambina grassa. Due compresse, quattro, otto. E io non so che legame ci sia tra il Dulcolax e una bambina grassa, visto che non dimagrisco…”. Parole forti che denotano un dolore che ha radici profonde.
Il libro è una denuncia sociale contro chi discrimina chi non rientra nei canoni di una società definita normale, dove si esibisce costantemente una forma fisica invidiabile e il culto del bello sembra l’unico credo da seguire. Ma chi definisce cosa è normale? Perché una persona obesa non deve sentirsi accettata nonostante il suo peso? Basta poco per sentirsi additati, esclusi, anche solo con uno sguardo. Come quello che viene lanciato nei confronti di un signore grasso seduto di fianco a noi sul tram o quei commenti detti sottovoce perché la ragazza obesa che cammina dall’altro lato della strada indossa abiti troppo stretti o come quell’uomo che in banca si avvicina a Matilde, indicando un’altra donna, e le dice: “Vede? Quella è mia moglie: prima era obesa, poi si è operata. Perché non lo fa anche lei?”.
Ciò che non si capisce è che ogni corpo vale e il primo passo per la lotta contro l’obesità deve partire dal linguaggio. Ogni parola può far male. Matilde è stata molestata quattro volte, si è sempre appoggiata economicamente al padre, ha perso la madre che venerava e da cui ha cercato approvazione per tutta la vita, ha avuto per sette anni una relazione violenta, ma ce l’ha fatta a sentirsi una donna consapevole della sua forma fisica e ha ricominciato da se stessa. Il dolore, i vuoti affettivi, la fame nervosa dovuta ad una forma di malessere acuta si sono poi attenuati col tempo. La giornalista, utilizzando una scrittura chiara, immediata, ci fa riflettere su quanto sia importante non giudicare il prossimo, ma donargli un aiuto concreto o una parola che però sia di conforto.